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Palazzina Laf

Regia di Michele Riondino vedi scheda film

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La recensione su Palazzina Laf

di daveper
7 stelle

In Palazzina Laf, Michele Riondino incide con precisione chirurgica un’epoca che brucia ancora sotto la superficie di Taranto, città forgiata dal ferro e avvelenata dalla sua stessa linfa. La narrazione si fa eco di un periodo storico in cui i tarantini sono stati sospesi tra la promessa di una prosperità industriale e il peso insostenibile di un ricatto sistemico: quello della salute sacrificata sull’altare del lavoro, della dignità compressa tra le maglie di un sistema spietato.

Riondino non si limita a evocare questa realtà; la osserva con uno sguardo che è al tempo stesso intimo e universale, incanalando l’urgenza di raccontare quelle storie che spesso restano soffocate dal rumore assordante delle ciminiere. La Palazzina Laf diventa il simbolo di una condizione esistenziale, una prigione e un rifugio, un luogo in cui si intrecciano le vite di uomini e donne costretti a sopravvivere nella consapevolezza di una scelta senza scampo. Riondino, tarantino di nascita, presta corpo e anima a un’opera che è molto più di un semplice film: è un atto d’amore per la sua terra e un grido contro la sua deturpazione. 

Da un lato, Caterino incarna il sacrificio, l’uomo che respira carbone e suda polvere, il cui corpo stesso diventa un'estensione della fabbrica. Il suo destino appare tracciato, un percorso segnato dall'usura fisica e dall’inevitabile dissoluzione in una quotidianità che non concede tregua. Dall’altro lato, ci sono quei lavoratori costretti a ridefinire il proprio ruolo, uomini e donne trascinati da un sistema che li piega e li trasforma, come ingranaggi sostituibili. Il film cattura il paradosso lacerante di una realtà in cui difendere il lavoro non è più una questione di passione o identità, ma di sopravvivenza. L’amarezza di chi si aggrappa a un'occupazione odiata, o di chi vede sgretolarsi sotto i piedi quella che un tempo era una vocazione, emerge in tutta la sua potenza drammatica. La fabbrica, che dovrebbe essere simbolo di progresso, diventa prigione, un luogo che risucchia non solo il respiro ma anche l’essenza stessa di chi vi lavora. 

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