Regia di Michele Riondino vedi scheda film
C’è una generazione che non dipende più dall’Ilva e che ormai riesce a pensare e immaginare un futuro senza grandi industrie.
Riondino e Germano su fronti apparentemente opposti, in realtà complici nella truffa ai danni di operai e colletti bianchi dell’azienda (la famosa e famigerata Illva di Taranto) per una vicenda che risale agli anni ’90, una storia tratta dal libro Fumo sulla città di Alessandro Leogrande, che avrebbe dovuto firmare la sceneggiatura ma che purtroppo durante la lavorazione della pellicola è venuto a mancare.
Le didascalie finali ci ricordano che situazioni del genere sono ancora diffuse all’interno di grandi aziende sparse sul territorio, e non facciamo fatica a crederci.
Realtà sfuggenti, la stampa la racconta come vuole, l’opinione pubblica è all’oscuro, anche se attaccata a tutti i telegiornali e giornali, a meno che non si rientri nella cerchia di parenti e amici nulla trapela, i sindacati evidentemente nulla possono o, se possono, poco fanno, la sensazione di impotenza è frustrante e sconfina spesso nella depressione, malattia difficile da quantificare come professionale.
La piramide aziendale è fatta di vertici e di gradi intermedi che, di girone in girone, scendono fino alla base.
Lungo questa scalea c’è chi sgomita e sale di grado, chi ubbidisce e si fa andar bene tutto, chi non fa del fatturato il suo unico e intoccabile feticcio come i vertici aziendali e osa contrapporsi in nome di bazzecole come tutela del lavoratore, sicurezza, diritti negati.
Questi personaggi scomodi una volta finivano ai Piombi o giù per qualche botola in prigioni a vita, oggi sono confinati nella Palazzina Laf, un reperto architettonico sopravvissuto agli altiforni in bella mostra nel piazzale dell’azienda.
E cosa fanno lì e, soprattutto, come ci sono arrivati?
Niente catene e cani alle costole, sono stati “demansionati”, cioè mandati a far niente finchè non impazziscono, o si pentono o trovano il coraggio di scrivere al Vescovo che viene a dir Messa la loro vibrata protesta.
Difficile anche questa mossa, il miglior alleato del potere è la paura, e allora serve un atto di autentico eroismo e lo compie il sindacalista Morra che riesce a portare il cahier de doléance in Procura.
Scatta l’inchiesta, il processo e arrivano le condanne, Riondino si limita a poche sequenze su questo finale di partita, nessun trionfalismo, le didascalie che illustrano lo stato dell’arte a tutt’oggi dicono abbastanza.
Quello che invece occupa la scena fin dall’inizio è il clima, dentro e fuori la Palazzina, e la caratterizzazione dei protagonisti, vittime e carnefici.
Ne risulta un affresco composito e maleodorante di vita vissuta, lì dove chi lavora è un oggetto a cui non si deve per forza portare rispetto e chi comanda muove le sue pedine con tranquilla indifferenza e sovrana prepotenza.
Il lacchè di regime è il dottor Basile, che Elio Germano incarna con una dose di sorridente cinismo da Oscar. L’altro, Riondino, è Caterino Lamanna, operaio addetto ai forni, spaccone e chiacchierone, il classico ballon d’essai, senza morale, senso civico e linguaggio, che diventa facile esca da mandare a spiare i compagni.
Per lui conta solo tornare dalla sua donna e progettare il trasferimento in città da quando il suo piccolo allevamento di pecore è stato annientato dalle velenose esalazioni della fabbrica.
La breve sequenza della morte dell’ultima pecora gareggia per tragica evidenza con quella delle pecore sfracellate giù dal burrone di Banditi a Orgosolo di De Seta.
Faticosamente anche in lui apparirà un barlume di consapevolezza e coscienza sociale, il mobbing, parola al tempo ancora sconosciuta, lo capirà quando si renderà conto che la Palazzina Laminatoio a Freddo non è il Paradiso della classe operaia dove si sta a bivaccare invece di faticare ai forni, ma un autentico lager dei nostri tempi dove i riottosi vengono spediti senza tanti complimenti.
Quelli che lui dovrebbe spiare e riferire al dottor Basile sono una piccola parte delle vittime del danno enorme che l’Illva ha “regalato” alla città di Taranto e su questo val la pena di riportare alcuni interventi del Riondino regista:
È la prima volta che faccio il regista, e l’ho fatto con una storia che secondo me è importante raccontare, dopo tanti anni in cui mi sono dedicato all’argomento Taranto e alla questione Ilva. In tutti questi anni in cui ho messo la faccia ad eventi legati all’evento, ho raccolto il materiale per poter raccontare questa storia.
Oggi l’Illva, complesso industriale di 15 chilometri quadrati fondato nel 1960 a Taranto (nel quartiere Tamburi, di circa 18mila abitanti) è “al 62% degli indiani e al 38 con partecipazione statale, attraverso Invitalia –spiega Riondino – Però fondamentalmente non hanno i soldi per pagare luce e gas, quindi non è una situazione felice. Oggi l’acciaieria non sta funzionando, o meglio funziona poco: hanno 3 milioni di tonnellate di produzione e si parla di 4.500 casse integrazioni che non verranno assorbiti e di cui la politica non si occupa”.
Oltre a quello dell’occupazione, la storia l’Ilva è legata anche e soprattutto a quello dell’inquinamento industriale causato dagli altiforni, che esponevano i lavoratori a sostanze cancerogene tra cui ferro, ossidi di ferro, arsenico, piombo, vanadio, nichel e cromo. Lo stabilimento è stato dunque sequestrato dallo Stato che, per salvaguardare l’occupazione, ha attivato il Commissariamento dell’azienda con una gara di assegnazione.
Nel frattempo tanti tarantini si sono rivolti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo per avere giustizia, dato che le due perizie depositate nel 2012, una chimica e l’altra epidemiologica, dimostrano l’inquinamento e il danno alla salute pubblica. Quindi, a carico di Emilio Riva e Nicola Riva (del Gruppo siderurgico Riva, il primo in Italia) e del direttore dello Stabilimento e del Responsabile, sono state ipotizzate varie accuse tra cui quelle di disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari e violazione delle cautele sul lavoro.
Non siamo contro la fabbrica, siamo contro quelle persone che avrebbero dovuto amare quella fabbrica e non renderla un mostro. All’Ilva c’è il problema ambientale, c’è il problema sanitario. Ma voglio essere ottimista: a Taranto adesso si sta respirando un’altra aria. C’è una generazione che non dipende più dall’Ilva e che ormai riesce a pensare e immaginare un futuro senza grandi industrie.
www.paoladigiuseppe.it
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