Regia di Luca Barbareschi vedi scheda film
AL CINEMA
Luca Barbareschi utilizza l'omonima pièce teatrale del drammaturgo e cineasta David Mamet, per dirigere, produrre ed interpretare la storia di uno psichiatra di fama caduto in disgrazia quando un suo giovane paziente, affetto da gravi problemi comportamentali da lui sempre evidenziati, si introduce in una scuola newyorkese sparando all'impazzata ed uccidendo a caso otto persone.
I media, anziché concentrarsi sul colpevole, prendono di mira il medico, reo di non essersi reso disponibile a testimoniare a favore del suo paziente, ed anzi travisato in alcune sue pubblicazioni in cui trattava di argomenti divisivi come l'omosessualità e la fede.
Barbareschi, spesso valido e sfaccettato interprete, produttore di progetti internazionali come le ultime opere di Polanski, e regista almeno interessante, giunto al suo quarto film da regista, è sempre stato avvezzo a cavalcare la polemica, utilizzandola come veicolo per far parlare di sé e della propria opera.
Col testo forte, polemico e scottante di Mamet, Luca Barbareschi gongola nel suo terreno ideale, ed imbastisce un film di buona fattura, girato in inglese ed ambientato a New York, circoscritto a quattro personaggi costretti in interni spesso stazioni e scenografici, ma in grado di spaziare con riprese aeree sofisticate e abilmente giostrate per dare un tocco di glamour ad un film altrimenti troppo a rischio di soffocamento o mortificazione da dialogo senza tregua. La vicenda però, nonostante l'abilità indubbia dell'autore del testo originario, trasposta in The Penitent si rivela spesso ripetitiva, asfittica, e il doppiaggio in lingua italiana, finisce per rendere fastidioso ed inopportuno proprio il personaggio protagonista, che lo stesso Barbareschi, autodippiandisi, trasforma in un affabulatore ed urlatore poco credibile e sin eccessivo.
L'autore, che si immedesima parecchio nel suo eccentrico e irriducibile personaggio un po' caricaturale e sempre coperto col suo vistoso impermeabile del colore del "can che scappa", ci mette del suo inserendo dettagli sin insistiti riguardo alla professione di fede ebraica professata dal protagonista, che si apprende recentemente convertitosi, al pari del vero attore protagonista e regista.
E poi certe ostentate americanate che impongono procedure giudiziarie tête à tête col pubblico ministero incalzante e sfidante, interpretato inevitabilmente e non certo a caso dall'attore nero Adrian Lester atteggiatissimo e pieno di sé.
Quanto all'altro personaggio, quello della moglie del protagonista, la pur brava Catherine McCormack si ritrova invischiata in una trappola che la fa apparire come una folle sclerata con tendenze suicide che rendono il ritratto familiare di coppia del protagonista qualcosa di simile ad una farsa bergmaniana senza rispetto per il celebrato autore svedese.
Al di là del valore indubbio dell'atto di accusa contro certa stampa spregiudicata sempre a caccia di colpevoli e di certa giustizia sommaria appannaggio di una collettività pressappochista e giustizialista, il film lungo due ore di quasi sole isterie e urla spesso indirizzate a vuoto, utilizzate per rivendicare il proprio status di vittima di eventi estranei alla propria responsabilità, si rivelano effettivamente davvero troppe.
Anche se, come già accennato, il film ha dalla sua una fattura tecnica internazionale piuttosto accattivante.
Circostanza questa che potrebbe farlo apprezzare più all'estero che alle nostre latitudini.
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