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Tredici variazioni sul tema

Regia di Jill Sprecher vedi scheda film

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La recensione su Tredici variazioni sul tema

di degoffro
8 stelle

Al suo secondo film dopo il riuscito “Clockwatchers” (uscito in sordina in Italia ma trasmesso di frequente, a tarda notte, sulle reti Rai), la regista Jill Sprecher, come già per il precedente titolo anche sceneggiatrice con la sorella Karen, affronta un tema da far tremare i polsi: la felicità e il destino. Il rischio della facile retorica e di riflessioni ovvie, spicciole, evanescenti o didascaliche era molto forte, ma viene evitato, quasi sempre, con una bella delicatezza di tocco, una non comune onestà di intenti, una acuta profondità di sguardo ed un’innegabile eleganza di messa in scena. La struttura con episodi ad incastro, costruiti in una narrazione cronologicamente non lineare e le conclusioni a cui arriva la regista non sono particolarmente originali o fulminanti (“A volte qualcuno è fortunato: gli viene concessa una seconda occasione!”), certi simbolismi sono di troppo ed alcune frasi ad effetto che introducono gli episodi appaiono sentenziose, ma “Tredici variazioni sul tema”, nonostante il titolo all’apparenza “impegnativo” (le tredici variazioni sono in realtà i capitoli in cui è diviso il film) non vuole essere un pedante trattato filosofico o esistenziale. La Sprecher, che si ispira ad un episodio accadutole negli anni novanta (il trauma cranico conseguente ad una rapina), non ha questa ambizione o presunzione: più semplicemente punta a mettere in scena uno spaccato quotidiano, quanto più possibile credibile, intenso e realistico, di una condizione umana che spesso fatica a capire e a trovare le ragioni di un vivere sereno ed in pace con se stessi (“E’ strano vivere in una città piena di persone che fanno di tutto per non guardarsi in faccia” si dice nel film). La regista non pretende di dare risposte né consigli, si limita ad osservare, con una pregevole attenzione alle sfumature ed ai dettagli e con una sensibilità non di maniera, un micro mondo newyorkese in cui, a volte, anche un mancato banale gesto, come può essere un saluto o un sorriso, condiziona in un senso o nell’altro la vita delle persone (bella, in questo senso, l’ultima scena, all’insegna di un garbato e sottile ottimismo). Non tutti gli episodi hanno la stessa efficacia e compattezza (il migliore è quello con protagonista l’assicuratore interpretato dall’ottimo Alan Arkin invidioso del collega sempre sorridente, anche quando gli dà il benservito, il meno risolto quello con protagonista le due ragazze), ma il film ha dalla sua un cast di attori di tutto rispetto (da menzionare John Turturro, Clea DuVall e Amy Irving, ma meno peggio del solito è anche Matthew McConaughey che in questo film, caso più unico che raro, evita persino di mostrare il suo fisico da macho), una scrittura intelligente e leggera nonostante la “pesantezza” del tema, ed una regia a tratti forse troppo timida e discreta ma sincera, partecipe, vicina ai suoi personaggi. Minimalista ma con gusto. Niente di eccezionale per carità, però fa piacere, ogni tanto, incontrare piccoli film sofisticati che si sforzano di raccontare con naturalezza, semplicità ed umiltà, in buon equilibrio tra sorriso e malinconia, speranza e cinismo, senza fastidiose, esibite o sterili furbizie, l’indecifrabilità, i casi e le sorprendenti coincidenze della vita, perché, come dice un personaggio: “La vita ha un significato solo guardando al passato. Peccato che dobbiamo vivere guardando al futuro!”. 2 nomination agli Independent Spirit Awards: migliore sceneggiatura e migliore attore non protagonista Alan Arkin. Presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia del 2001. Prodotto, tra gli altri, da Michael Stipe.

Voto: 7

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