Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
Si può legittimamente avere qualsiasi opinione su Pedro Almodovar e sul suo cinema colorato, ingombrante, spesso arruffone; ma non gli si può, almeno in quello che ad oggi è il suo capolavoro, non riconoscere il coraggio ed il talento di sfidare il ridicolo e di uscirne sprezzante vincitore. Non tentando di raffreddarne la materia , bensì immergendosi in essa, penetrandola (come fa il protagonista del corto che il regista inserisce in Parla con lei) e in essa restando a scrutarla e lavorarla, fino a cavarne l’essenza dolorosa e disperante, prisma e spettro della forza di un sentimento che resiste oltre la vita e nonostante la vita (ci sono decessi, suicidi, superstiti segnati da un dolore fisico e interiore che infine ne consente il reciproco riconoscimento).
Habla con ella è film di corpi, lacrime e umori. Corpi agili e nervosi (Lydia), segnati e immobili (Alicia), ingombranti e irrisolti (Benigno), sentimentali e attoniti (Marco). Le lacrime scorrono copiose sui volti virili, nelle vite e tra le vite di un sesso e genere che si fa debole e sgomento, incapace com’è di trovare una via d’uscita all’amore ed alla sua forza, e tuttavia pronto ad affrontare l’amicizia, e ad abbandonarsi ad essa, come rifugio sicuro in cui dare un senso al passato e provare ad immaginare un futuro. Almodovar costringe le donne all’immobilità: terminata l’eco di una rappresentazione di Pina Bausch, di un balletto insegnato ed appreso, di una corrida che è sempre polvere e sangue, l’universo femminile del regista si stabilizza in una fissità che è tuttavia fonte di gioia e dolore per chi la osservi e ne venga rapito o trasportato, fino a quando il rifiorire di un corpo apre orizzonti nuovi che comunque non possono fare a meno del ricordo: e, sì, ci sono ancora le lacrime di un uomo a sottolinearlo. E poi gli umori: il ciclo della ragazza in coma, che è ancora vita, e la sua mancanza, che apre la porta al dramma ma anche alla rinascita (Almodovar sembra dire, in questa ineffabile quadriglia amorosa, che la vita degli uni non può che escludere quella degli altri), la vulva che si apre a contenere un piccolo uomo innamorato, la vischiosità di un serpente, il sangue di un toro ferito a morte, le flebo, le soluzioni mediche, il sudore di corpi ingabbiati nelle emozioni o avvolti in un limbo di premorienza. E, ancora e sempre, lacrime.
Il gioco scoperto di Almodovar, e probabilmente il colpo di genio del film, sta nel rovesciamento dell’assunto per cui l’amore non può che essere l’incontro tra due corpi vivi. Perché si può amare anche un corpo che non c’è (ovvero un corpo che è con te, quello di Lydia, benchè perso in un’anima che segue le onde del Nino de Valencia) donando ad esso la forza consolatoria di una parola vuota, ciclica, ripetitiva, nella infungibile ossessione di poter piegare l’assenza ad un sentimento pronto a tutto. Ciò è talmente vero che, quando quel corpo si desta (previa, ancora, la morte di un altro essere: il bambino – ci risiamo: la vita di qualcuno elide la vita di un altro - ) il film si interrompe su un sorriso accennato e un’emozione ovattata. Non sapremo mai se quel nuovo amore, finalmente vivo, libero, normale, possa nascere. Tra due corpi vivi, e presenti a se stessi e agli altri, il dubbio è legittimo.
La sceneggiatura di Parla con lei, in puro stile almodovariano, è ricca, barocca, frizzante, ridondante, in alcuni punti anche infelice o pleonastica (si pensi alla battuta della segretaria che esce dalla toilette e parla al telefono dell’esito della sua seduta fisiologica o alla scena in cui la portiera del carcere dimentica di accendere il microfono per comunicare con Marco). Ma sono dettagli in un film che conserva intatto il suo fascino dirompente, capace com’è di emozionare e di consentire l’immersione in quello che è un mondo di dolore che sembra incoercibile. Perché, come anche insegnano la paloma di Caetano Veloso o i drammatici e perfetti movimenti ritmici di Pina Bausch, la passione mortale uccide.
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