Regia di Michael Mann vedi scheda film
Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro!
I 10 anni più intensi della sua vita, dall'incontro con Sonny Liston alla riconquista del titolo mondiale in Zaire contro Foreman, per disegnare il personaggio-uomo Alì oltre al personaggio sportivo.
Sì perché l'intento di Mann è di mettere in scena il dramma politico e sociale, oltre che sportivo, non solo di Alì, ma degli USA tra anni '60 e '70, nell'epoca della presa di coscienza della minoranza afro-americana e dell'atto profondamente simbolico del Pugile di diventare renitente alla leva (durante la Guerra in Viet-Nam) anche a costo di perdere corona, soldi e prestigio e fino a rischiare l'arresto e la condanna a 5 anni di reclusione.
Una evoluzione del personaggio Alì, da semplice guascone a orgoglio della Nazione nera, attraverso l'amicizia con Malcom X e la radicalizzazione all'Islam.
"Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro!". Una frase che diventa un mantra per tutti i Neri alla ricerca di un riscatto in Patria più che sul fronte.
Ci sarebbe materiale per fare un affresco di costume e personale intenso e appassionante. Eppure il film manifesta clamorosi limiti nella costruzione del pathos, nella realizzazione della riproduzione dei matches storici sul ring, nella stessa modalità del racconto.
Perché è stridente il contrasto fra il regista Mann, da sempre abituato a raccontare tramite la significazione dell’immagine avulsa ddal contesto storico, e Muhammed Alì, uno dei personaggi più pieni di retorica, di ideologia, di messaggi sociali e politici.
Senza contare che la scelta degli interpreti, a partire dall'attonito Will Smith, non è sembrata molto felice ...
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