Regia di Goran Paskaljevic vedi scheda film
Un ottimo regista serbo, un bel racconto scovato in un libro di favole cinesi e un’ambientazione irlandese per una pellicola decisamente trasversale, dal punto di vista geografico-simbolico. Dell’iconografia del cinema irlandese e di molte delle sue convenzioni può fare a meno o le usa come terreno fertile nel quale piantare le robuste gambe di Harry (la prova di Colm Meaney è davvero degna di nota), trasformandole in radici, e le sue mani e le sue tozze dita in rami possenti e spogli. È il 1924 e il protagonista ha perduto il figlio Pat nella guerra civile (un sottotesto essenziale, appena accennato, una “polveriera” emotiva risolta con silenzi e qualche lacrima) e poco dopo anche la moglie, morta di dolore. Restano un altro figlio, timido e pavido, un campo di cavoli, la pioggia, la fame e il sogno di una metamorfosi per rimanere piantati nella terra del proprio Paese. Harry decide di scegliersi George, il più ricco, seduttore del villaggio, come nemico. Un “duello” (l’intreccio principale) da affrontare con ogni arma (fucile a canne mozze, i cavoli lasciati marcire, l’infedeltà della giovane neonuora) e con ogni stratagemma. Un’inimicizia impastata di humour e di cattiverie. Condotta con grandissima maestria.
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