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Mulholland Drive

Regia di David Lynch vedi scheda film

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La recensione su Mulholland Drive

di omero sala
8 stelle

 

Mulholland drive è un film trappola (facile entrarvi, impossibile uscirne); ed è un film apparentemente senza trama.

Al cinema (e comunque in tutte le storie diversamente raccontate) siamo abituati ad assistere a sequenze di fatti che si susseguono ordinatamente nel tempo con consequenzialità causale, logica intrinseca e ordine temporale: ogni narrazione di solito si sviluppa sotto i nostri occhi con un andamento che cattura l’attenzione, favorisce l’immedesimazione personale, sollecita la partecipazione emotiva (Nel dizionario Treccani la trama è definita, oltre che il filo che costituisce la parte trasversale di un tessuto fatto di trama e ordito), la linea essenziale di svolgimento dei fatti che costituiscono l'argomento di un'opera narrativa, teatrale e simili.  E fra i sinonimi troviamo “intreccio, plot, storia, sceneggiatura, soggetto).

 

Ecco: è appunto la trama che resta impercepita, e comunque indecifrabile, in Mulholland drive.

All’inizio questa astruseria non appare subito evidente.

Il film infatti, nella prima parte, racconta avvenimenti chiari: si apre con un terribile incidente stradale che avviene di notte su Mulholland drive (la strada che attraversa le colline di Hollywood); mostra che dentro la lussuosa limousine che si schianta in un impatto frontale, stava per avvenire un omicidio; si vede che la vittima predestinata, una bellissima attrice, sopravvive allo schianto e si allontana dal luogo del sinistro, poi si inoltra nella boscaglia, discende la collina, entra in Los Angeles e finisce per intrufolarsi in una lussuosa villa appena liberata dai suoi facoltosi inquilini in partenza per un viaggio. Nella villa arriva anche una nipote dei proprietari, Beth (Naomi Watts) che viene dalla campagna in cerca di fortuna nella mecca del cinema. Beth sorprende la clandestina ferita, ancora frastornata, colpita da amnesia; ne ha compassione e decide di aiutarla. L’amnesica, che si chiama Camilla, è alla ricerca della propria identità: prima ruba il nome Rita da un manifesto del film Gilda appeso in bagno (un famoso film del 1948, di Vidor, con Rita Hayowrth), poi si scopre che è una diva di Hollywood che in realtà si chiama Camilla ed è impaurita e anche impelagata in qualcosa di indefinibilmente losco.

Da qui si dipana una storia complicatissima che vede Beth impegnata a fare (o sognare?) provini negli Studios e a cercare di far ritrovare il senno alla sua nuova amica. E accadono cose strane, inspiegabili, non facilmente collegabili fra loro. Quasi come capita con gli spezzoni dei sogni, qualche volta anche sereni, ma comunque sempre un po’ incongruenti.

 

Oltre la metà del film salta fuori una scatoletta, un misterioso cubo blu con una strana chiave triangolare: le due amiche (?) infilano la chiave, lo aprono, e … dissolvenza. 

Pare ricominciare un altra storia, succedono cose, il film si fa più affannato, più confuso, cupo. Le due protagoniste mostrano risvolti insoliti di cinismo e ferocia, e pare invertano i ruoli: l’amnesica Camilla prende il controllo e la candida provincialotta empatica diventa una larva scarmigliata.  Non si capisce se il ribaltamento sia l’esplosione di incubi o se - al contrario - sia un amaro ritorno alla realtà; se la prima parte luminosa sia semplicemente la memoria di una felicità perduta oppure rappresenti il doloroso tentativo di evasione dal groviglio quotidiano delle ossessioni inconsce. 

Ma forse le due situazioni sono compresenti, si accompagnano inscindibili come le due facce del nastro di Möbius sul quale possono scorrere la pienezza e il vuoto, lo yin e il yang delle filosofie cinesi in cui il bianco e il nero si compenetrano e il bene e il male sono consustanziali. 

La vicenda si ingarbuglia, i fatti - già di per sé complicati - si intrecciano coi ricordi e si impigliano nelle amnesie; assistiamo a inspiegabili salti temporali, sorprese incongruenti, situazioni opache; visitiamo luoghi improbabili e assistiamo ad avvenimenti inverosimili (il club-teatro Silencio), intuiamo intrecci amorosi complicati, incontriamo personaggi misteriosi (il boss, la portinaia), facciamo scoperte macabre (il cadavere nel letto del cottage), impattiamo in sdoppiamenti, scambi, sostituzioni e perdite di identità, metamorfosi e allucinazioni (l’orrendo vagabondo letale fuori dal bar).

 

Il tutto impastato in uno sviluppo assurdo, incomprensibile per i protagonisti, inestricabile per gli spettatori; quei poveri spettatori che, abituati dall’arte a decifrare significati, costretti dalla vita a cercarne il senso, annaspano qui nella ricerca di segnali, sono costretti a trovare o inventare nessi inesistenti, pretendono o si illudono di intravvedere una logica di consequenzialità volutamente sbiadita, vogliono collegare i fili della vicenda intenzionalmente aggrovigliati. 

Non c’è nulla di più spaesante che il vedersi sfuggire di mano una situazione che si crede di conoscere. Non c’è nulla di più perturbante che rispecchiarsi negli aspetti torbidi della propria personalità. Non c’è niente di più devastante che lo scoprire gli squilibri della quotidianità, 

Forse la morale sta in questo: in Mulholland drive - come nella vita - il senso non deve essere ricercato: ognuno coglie quel che c’è in base alla propria sensibilità; ognuno capta i rimandi che può; ognuno, col filtro interpretativo della personale esperienza esistenziale ed emotiva, riceve il suo messaggio, costruisce la sua fruizione, assorbe quel che merita, prende quel che basta.

 

Un altro frequentatore dell’onirico, Fellini, nel suo film 8 1/2 (del 1963), inserisce alcune sequenze virate, seppiate o sovraesposte per fornire chiavi di lettura e orientare gli spettatori nel distinguere fra deliri e monotonie. 

Lynch non offre aiuti: dopo essersi scapicollato fra dimensioni parallele, ci abbandona nella confusione inquieta, nelle macchinose ambiguità, nella destabilizzante e faticosa ricognizione delle nostre incerte identità. 

 

 

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