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The Bank. Il nemico pubblico nº1

Regia di Robert Connolly vedi scheda film

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La recensione su The Bank. Il nemico pubblico nº1

di lamettrie
9 stelle

«Dobbiamo far fare ai politici quel che vogliamo. Siano entrati nell’era del feudalesimo capitalista. Noi siamo i nuovi principi». Questa è la sintesi della splendida sceneggiatura di questo assai avvincente thriller economico, ottimo e sottovalutato. Che trova proprio nella sceneggiatura il suo punto di forza: tanto nella trama, che ha un finale meraviglioso, ben costruito in tutto ciò che precede, quanto nei dialoghi, utilissimi per comprendere lo spirito del capitalismo.

L’ossessione del guadagno per questi è l’unica molla dell’agire umano. «Per guadagnare bisogna licenziare, e farlo grazie alla tecnologia».  Temi eterni, che oggi sono di moda, ma allora non lo erano ancora, nel 2001.  «I profitti non basta che ci siano, e che non scendano: devono crescere del 15% all’anno, almeno». Questo viene detto dal capo della banca al dirigente, se vuole conservare il suo posto. Con queste basi è però indispensabile cercare di distruggere l’etica. Infatti addetti della banca vanno dai bambini per indottrinarli nella scuole, con messaggi diseducativi lasciati passare con disinvoltura dalla stessa struttura scolastica.

«Il nostro dovere è spazzare via la concorrenza. Questo dobbiamo ai nostri azionisti: sono loro il nostro popolo, la nostra società… Gli altri che si arrangino da soli». Dopo questo lucido manifesto politico del capitalismo, ne arrivano le conseguenze inevitabili: « Dobbiamo trarre beneficio dal crollo dell’economia… Dobbiamo lasciare il segno, non come tutti gli altri… come Pitagora, Oppenheimer»: all’avidità si aggiunge il desiderio di gloria. «Si, ma Oppenheimer ha inventato la bomba atomica», per fortuna gli si oppone, sperando d’indurre una riflessione adeguata.

E nel bisogno di negare etica e giustizia,  la banca manda sul lastrico la gente per aver tenuto nascosti i rischi. Ma sapevano di infrangere fior di leggi; ma per il profitto si poteva correre il rischio. E la coscienza viene ripulita in un attimo, come se non esistesse: «Trovo intollerabile il tuo stare sempre dalla parte dei perdenti», i piccoli risparmiatori che di fatto sono stati truffati da quelle speculazioni.

«La legge è elastica», ma ha buon gioco a rispondergli un ricco socio, che appunto si dissocia perché c’è un limite al crimine nascosto in nome del profitto: «Ma l’etica non è elastica.»

In generale il film fa vedere che la borsa è un gioco d’azzardo, un rischio calcolato grazie a geni della matematica, come il protagonista. Niente di utile alla società, anzi: se per il proprio profitto è necessario distruggere la vita di altri, ci si passa sopra senza tanti complimenti (purché ci sia l’alleanza di una politica serva, come ricordato all’inizio, e di una società incapace di leggere i mali che le si fanno, c’è da aggiungere: e questo modello rapinoso continua a essere vincente).

Ma questa strategia criminale, che purtroppo è realistica e non si può certo ridurre a un’esagerazione dovuta alla creatività, si allarga a ogni aspetto. Per il caso del figlio morto, su cui reclama giustizia la coppia mandata sul lastrico dalla banca (la quale si prende tutto il litorale per speculazioni edilizie, con mezzi anche iniqui), è lo stesso studio legale della banca ad ammettere, al proprio interno: «Abbiamo fatto circolare la voce che il padre abusava del figlio per distogliere l’attenzione». Ovviamente quella denuncia era falsa.

Il film è veloce, non annoia mai. È abbastanza ben recitato, anche se un po’ televisivo per certi aspetti. Ma la serietà e l’utilità della denuncia storica è fuori discussione. Un ottimo film didascalico sui delitti della grande economia, prima causa dei mali del mondo contemporaneo.

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