Regia di Barbet Schroeder vedi scheda film
Fa capolino, nella generica medietà del thriller USA anni '90, questo Soluzione estrema, guardacaso diretto dal franco/svizzero Barbet Schroeder.
Non è la prima volta che un regista transalpino rinvigorisca (o addirittura spinga alle estreme conseguenze) il cinema di genere d'oltreoceano. Basti pensare- con esiti molti disanti dal qui presente - a Jacques Tourneur e, in particolare, ai suoi Le catene della colpa e Il bacio della pantera. Non solo: l'impronta del noir nordamericano ha suggestionato parecchi registi della Nouvelle Vague, divenendo cera e resina di film come Finalmente domenica! di Truffaut e anche - ma nella sinossi e non nella forma - Fino all'ultimo respiro di Godard (un caso più complesso dal punto di vista socio/culturale è invece quello di Chabrol).
Se il thriller è abitualmente un genere più previdibile e meno suggestivo del noir, Schroeder, al di là dei limiti dell'intreccio, dimostra una capacità di mise en scene e un senso del ritmo che a molti dei suoi colleghi statunitensi manca.
La narrazione è presto riassunta: il figlio del detective Connor, malato di leucemia, necessita alla svelta di un trapianto di midollo. L'unico donatore geneticamente compatibile è, per sfortuna, il maniaco pluriomicida Peter McCabe, uomo feroce e intelligentissimo. A Connor non rimane che stringere un pericolosissimo patto col diavolo...
Inutile svelare in questa sede i colpi di scena di un intreccio che, comunque, nella seconda parte si sgonfia. Meglio forse rimarcarne la sottile (ma non troppo) ambiguità: in un mondo cinico e rigido prigioniero di schem(atism)i sociali (dove il ruolo definisce la persona - che è sempre maschera - e non viceversa), basta l'inserimento dell'elemento anarchico per far saltare il banco. La manichea separazione tra Bene e Male diventa compenetrazione: McCabe, uomo alla stato di natura (quasi la versione "intellettuale" del ragazzo selvaggio), abbandona (o supera?) i limiti dell'agire morale per diventare campione dell'interesse assoluto. Nel farlo, si trascina dietro anche il detective Connor, che al superamento della barriera era già in qualche modo predestinato (e già all'inizio e pronto a scendere a patti con il "cattivo").
Se il confronto tra i due attori (il poliziotto Garcia e il criminale Keaton) è insensato, tanto è sbilanciata la rilevanza del secondo, non sono così scontate le virtù di regia di Schroeder: basti pensare al geniale inizio, dove i titoli di scorrono - anzi fluiscono (e, anche se è un caso, un quasi impercettibile leitmotiv è la splendida Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival, il cui testo ripete insistentemente:Rollin' on the river) - tra i "buchi neri" dell'inquadratura, porzione di spazio nascosta alla luce da cui tutto - immagine in primis - sorge.
Come già detto, la seconda parte del film è quella meno interessante e più ovvia e, perchè no?, seccante: ma nelle primissime scene (basti pensare all'introduzione di McCabe) l'uso deformante dei grandangoli, le angolazioni improbabili e sbollate - sghembe-, l'uso reiterato del contre-plongèe in funzione espressiva, deve qualcosa all'insegnamento di Welles. Il resto è, per l'appunto, un fluire amorale di situazioni, come un fiume in piena dal corso sempre più tortuoso, fino a pervenire ad un finale che molti giudicheranno tra l'ironico e il beffardo ma che, in verità, è l'unica possibile risoluzione di questo thriller ("metafisico" si è scritto più volte, ma non è corretto: il "diavolo" e il "male" sono riassorbiti dalla stessa struttura sociale e fisica del "vivere insieme").
Rollin' on the river
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