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Black Hawk Down

Regia di Ridley Scott vedi scheda film

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La recensione su Black Hawk Down

di scapigliato
8 stelle

Tecnicamente stupendo. Narrativamente impeccabile. Parterre di attori non solo in parte, ma anche di un certo fascino culto - McEwan e Bremner da Trainspotting, un acerbo Orlando Bloom non ancora né Legolas né Will Turner, un giovane Tom Hardy ancora lontano dai muscolari villain di Bane e Bronson, un Eric Bana pre-Hulk, e seniors come Jason Isaacs, Tom Sizemore e Sam Shepard, ognuno con il suo celebre background.

Il film, sottilmente antimilitarista, di Ridley Scott, ambientato a Mogadiscio durante le fasi più concitate della guerra civile dei primi anni ’90, racconta la “caduta” del falco nero, che se vogliamo non è solo l’elicottero da battaglia che si sfracella al suolo generando l’azione principale della storia, ma può ben essere anche la caduta, lo smacco, il tonfo rumoroso del militarismo imperialista americano. Se non è un film spiccatamente antimilitarista, nel mettere in scena la sconfitta dell’esercito USA, il regista invece di mostrare il muscolo, mostra la ciccia, la pelle cadente dietro il bicipite. L’altra faccia della medaglia è la morte. E da qui non si scappa.  Come rivela la frase di Platone con cui si apre il film “Solo i morti conoscono la fine della guerra”. Il messaggio è più che chiaro, ed è in nuce fin dall’inizio come monito e quasi come anticipazione del finale, come risoluzione svelata con cui leggere da lì in avanti l’intera vicenda.

I corpi smembrati e massacrati dei giovani soldati - plauso all’antologica effettistica gore e splatter - e i loro cadaveri “zombieficati” dalla bellissima fotografia antinaturalistica di Slawomir Idziak, sembrano essere la versione realistica dei revenant del Vietnam che troviamo in cult movie horror come Dietro la porta (1972) e il più recente Homecoming (2005) diretto da Joe Dante per la serie Masters of Horror. La corruzione del corpo, che chiama regolarmente la riflessione sulla carne tipica degli anni ’80, anni di edonismo e di war-movie, è qui il basso continuo poetico ed estetico dell’intero film, aiuta a comprendere i personaggi letteralmente fino nelle loro viscere. Serve a decostruire, massacrandolo, il “corpo” militare americano, e incornicia il genere - paradossalmente avaro di smembramenti, quasi come per edulcorare la morte in battaglia - dentro confini spietati, contravvenendo così alla liturgia dell’eroismo in guerra.

A conferma di questo, il personaggio di Josh Hartnett, al suo primo ruolo maturo, chiosa con un breve monologo l’assurdità della guerra, salvando in extremis, e forse per direttive di scuderia, soltanto l’eroismo cameratesco che alla fine di tutto resta l’unico spiraglio di umanità interno al clan militare: la vita di un compagno.

Su Josh Hartnett

Josh Hartnett, essendo questo un film corale, recita tra la mischia, ma riesce tranquillamente ad uscirne vistosamente, grazie alla bravura sua peculiare. Lo gustiamo, purtroppo, non in tutto l’arco del film. A lui, comunque, la battuta cardine della storia, quando alla fine, sentenzia che morire in quel modo, come son morti gli altri giovani suoi amici, non è da eroi. Perché la guerra è sbagliata e basta. Una dura lezione per gli esaltati a stelle e strisce.

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