Regia di Jean-Pierre Jeunet vedi scheda film
Nel titolo c’è l’aggettivo che definisce questo film: favoloso (ma manca, nel titolo italiano, il sostantivo “destino”, termine essenziale alla comprensione del messaggio sostanziale dell’opera).
Il film si può definire favoloso perché racconta una favola con un garbo incantevole e perché ha un effetto magico su di noi che veniamo irresistibilmente ammaliati dalla dolce seduttività di Audrey Tautou; e come lei vorremmo lasciarci rapire dalla apparente ingenuità dell’universo e farci cullare in fantasie di evasione e sogni liberatori, rimanendo rintanati, rincattucciati nel desiderio di trovare tregua e riconciliazione, come attratti dalla dolcezza di un mondo privo di gravità o quasi assaliti da un’appagante “cupio dissolvi” che ci ripara dalle attenzioni sempre incerte, spesso rischiose, del destino.
Amélie ammalia, perché conosce mille modi per districare tutti dalle difficoltà intervenendo magicamente sugli inceppamenti delle vite (ma, accidenti, aiuta gli altri in attesa di imparare ad aiutare sé stessa; lenisce solitudini perché è sola; offre scappatoie perché è ingabbiata dalle proprie nevrosi; ispira soluzioni semplici perché non sa sciogliere i suoi aggrovigliati problemi, i suoi blocchi, le frustrazioni).
La dolce Amélie è un deus ex machina del tutto particolare, che non squarcia le nubi quando interviene, non emette tuoni e non abbaglia: passa invisibile sfiorando le anime, agisce tramite messaggi ed escamotages (e anche con qualche bugia), non si espone, desta palingenesi senza forzature, reindirizza offrendo input non percettibili, fa in modo che le piccole ma sostanziali conversioni che provoca nelle persone sconsolate che popolano il suo piccolo universo avvengano apparentemente per caso, appaiano naturali, come decisioni maturate spontaneamente.
La sua missione è far riaffiorare la gioia - non darla, che sarebbe troppo; aiutare a ritrovare piccole felicità (come quelle restituite da una dimenticata scatola di oggetti infantili o da una lettera attesa e mai pervenuta). Una missione che investe gli strambi personaggi che la circondano (al bar dove lavora, nel quartiere dove abita, lungo le strade di Montmartre che frequenta) ma che vorrebbe estendersi all’universo, anche a noi spettatori, come testimoniano i suoi splendidi occhi malinconici che guardano in macchina e bucano lo schermo, chiamandoci, attraendo ognuno di noi, invitando tutti a rompere la fragile crosta per far capolino nel suo favoloso mondo dove tutto è possibile. (A conferma di questa vocazione missionaria nei confronti di chi la guarda, Amélie dichiara che ama, al cinema, voltarsi nel buio e osservare le facce degli altri spettatori…).
Già. Perché uno degli elementi che ci fa amare il film è dato dal fatto che ognuno di noi sente quel richiamo, capisce che Amélie gli parla e trova nelle magagne di tutti i personaggi miracolati dall’intervento di Amélie alcuni malesseri propri, alcune ombre della propria personalità, momenti critici della propria esistenza, sfaccettature opache del proprio modo di essere: un imbarazzo provato, un’impotenza sentimentale sofferta, una delusione subita, una condizione di invisibilità o di incomunicabilità attraversata.
Tutti ci siamo trovati, in un passaggio della nostra esistenza, nella condizione della Ragazza con il bicchiere d’acqua, del quadro di Renoir (La colazione dei canottieri) che viene ridipinto ogni anno dallo scontroso ma sensibilissimo amico di Amélie, monsieur Dufayel, l’uomo di vetro: nel trambusto della scena raffigurata, in cui tutti i personaggi si relazionano con qualcuno, la ragazza beve guardando nel vuoto, assente. Come Amélie, che appare nel turbinare delle vite degli altri ma è altrove; che si impregna delle solitudini di tutti, che vuole far ritrovare agli stanchi della vita la nascente felicità della fanciullezza che lei sta perdendo (splendidamente commovente la sequenza nella quale la protagonista accompagna per un pezzo di strada strada un cieco descrivendogli il paesaggio).
Tutto quel che accade è leggero e denso di segnali potenti non sempre decifrabili, come nei sogni; tutto quel che la dolce Amélie fa, provoca piccoli assestamenti alle vite di chi la circonda, restituisce equilibrio a chi sta smarrendosi, scioglie le inquietudini, suggerisce emozioni.
Tutto quel che accade ha la leggera e la visionaria surrealtà delle favole, dove il destino viene spesso impersonato - come ricorda Propp nel suo scritto Morfologia della fiaba - da unaiutante, generalmente un mago.Amélie che agisce nell’ombra, generando effetti imprevedibili, non sempre benefici (vedi l’esilarante raffica di ritorsioni verso lo screanzato fruttivendolo).
E come nelle favole, i personaggi sono schematici, senza eccessive sfumature; i luoghi, benché connotati, sembrano quelli delle nostre quotidianità; i colori saturi, essenziali e sgargianti richiamano un po’ il film di animazione, un po’ la pittura impressionista (Renoir, Monet, Degas) e trasfigurano emotivamente la realtà favorendo un processo graduale di straniamento a cui non si può resistere.
L’ultima miracolata da Amélie è lei stessa.
Dopo aver suggerito a tutti dei piccoli stratagemmi per uscire dalle incrostazioni autoprodotte, supera le sue paure (di rifiuto?), esce dal ruolo di deus ex machina (e di spettatrice) e si lascia aiutare, paradossalmente, dall’uomo di vetro, personificazione della fragilità (che le fa capire le ragioni della solitudine della ragazza col bicchiere di Renoir, identiche alle sue; che la convince ad uscire dalle quinte, a rompere i fragili diaframmi che impediscono di vedere, ad abbattere i paraventi e ad aprirsi alla tenerezza (“Mia piccola Amélie, lei non ha le ossa di vetro: lei può scontrarsi con la vita. Se lei si lascia scappare questa occasione, con il tempo sarà il suo cuore che diventerà secco e fragile come il mio scheletro. Perciò si lanci, accidenti a lei!”).
L’immaginazione, figlia della solitudine, cede il passo all’intraprendenza, non senza mille reticenze.
E Amélie si ritrova a scegliere Nino, che colleziona fototessere scartate, inconsapevolmente in cerca della propria identità.
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