Regia di Robert Bresson vedi scheda film
Il minimalismo bressoniano è l'attenzione ai dettagli, la mancanza di spettacolarità e l'importanza del passaggio narrativo. Il montaggio, che splendidamente accompagna le immagini ispiratissime dell'ultimo grande lavoro del maestro francese, ricalca la successione di un'abberrante casualità che niente toglie al meccanico ripetersi delle azioni umane e che sfreccia inesorabile sopra un'umanità andata perduta nei meandri del lucro e del guadagno fine a se stesso, in cui si è arrivati a un grado di apatia ben superiore al malcontento per banali motivi classisti, spinto da un motore immobile, il denaro, che, soprattutto se falso, costringe assurdamente a colpe non commesse e a salvezze immeritate. Ma certo, in L'argent, la meritocrazia non è di casa, del mondo, e neanche la giustizia riesce a destreggiarsi nella complessità di una ronde ophulsiana inceppata e non più fluida, mossa non dal piacere e dall'amore, ma dal guadagno. Negozi, casse, pagamenti, il quotidiano scivola nel tragico, lentamente e inesorabilmente, nell'attessa di un niente catastrofico e brutale com'è la splendida penultima sequenza dell'immotivato omicidio di massa. E se da Pickpocket e Un condannato a morte è fuggito una passionalità e una "spettacolarità" visiva erano venute fuori dal naturale procedere delle inquadrature e dalla tensione che si insidiava nello spettatore, qui la freddezza regna sovrana, tanto da allungare fino allo stremo una durata invero breve, tesa alla rappresentazione di un mondo sempre uguale a se stesso e, nel suo vagheggiante andamento, sonnacchioso, brutale, spiazzante. In ogni caso, difficilmente digeribile.
L'argent è un grande film per la regia, per le attente interpretazioni, per l'assenza quasi totale di partecipazione emotiva, per il vuoto umano che rappresenta, attraverso piccoli movimenti di camera e sguardi fissi spesso verso il basso, all'altezza delle mani (tanto amate da Bresson) che non danzano più nel bianco e nero di Pickpocket ma agiscono nelle loro fuorvianti e grottesche azioni quotidiane annullando l'identità e rendendo tutti uguali sotto l'influenza del denaro. Da una banconota, il finimondo: l'irrazionalità regna sovrana, e il pessimismo apocalittico di Bresson raggiunge, negli omicidi silenziosi e nella figura del cane che vaga per la casa preoccupato, il suo zenit. Certo, un minimo di carattere autoreferenziale c'è (torna il tema ricorrente del carcere, come se l'uomo fosse di natura dentro una prigione fatta di circostanze e di umori ambientali), ma non si avverte arroganza, solo lucida e disincantata disperazione.
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