Regia di Carmine Gallone vedi scheda film
La debolezza del quarto capitolo risiede nell’assunto iniziale: in accordo con la logica del “promuovere per rimuovere”, com’è possibile credere ad un manesco parroco di campagna diventato monsignore in Vaticano e ad un ignorante sindaco di provincia in un seggio senatoriale? Regge fino ad un certo punto la satira nei confronti della vacua ampollosità clericale e della discutibile politica della rappresentanza comunista. Il ritorno a Brescello, agognato da Fernandel e Gino Cervi (al solito esimi) quasi quanto il pubblico, appare inevitabile ed è proprio nella Bassa che ritrovano e ritroviamo un po’ del precipuo sapore della saga: in pieno boom, Don Camillo e Peppone hanno bisogno di un pretesto per tornare al passato con la consapevolezza del presente che incombe (la distensione). Film debole per quanto simpatico, che cerca di bagnare il naso alla commedia di costume per tenere il passo coi tempi che scorrono, ha la solita struttura antologica attraversata dalla coscienza del soggiorno limitato dei due illustri ex (c’è un nuovo curato e il fedele Saro Urzì è diventato sindaco) e vanta almeno due momenti notevoli: la posa della prima pietra della Casa del popolo interrotta dall’arrivo di Emma Gramatica come devota madre di un figlio morto in guerra; e il toccante episodio del funerale in piazza. Il finale sembrerebbe definitivo: ormai Don Camillo e Peppone sono cresciuti, e non devono più rincorrersi come nel finale del precedente capitolo.
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