Regia di Christian Petzold vedi scheda film
Dai quattro elementi della fisica classica (terra, acqua, aria, fuoco) Telesio passò a tre (due nature agenti (il caldo e il freddo), e una massa corporea (la materia) che non muta mai.).
Petzold ha deciso di fermarsi a due, acqua (Undine) e fuoco (Il cielo brucia).
Per il futuro ha altri progetti, ha dichiarato alla master class di Torino, e il film sull’aria non si farà.
Roter Himmel, Cielo rosso, è il titolo originale, migliore dell'enfatica traduzione italiana.
Quel rosso è lì, sullo sfondo, di tanto in tanto un Canadair rompe il silenzio.
Il grande incendio boschivo che invade la costa del Baltico dove si trovano i due protagonisti, Leon (Thomas Schubert) e Felix (Langston Uibel), poi tre con Nadja (Paula Beer), per un breve soggiorno di studio, lavoro, bagni e quant’altro, appare come una specie di minaccia biblica, un rosso uniforme che occupa il cielo a distanza e che gli esseri umani guardano con stupore più che paura, la vita continua con i consueti, ingenui modi di esorcizzare le disgrazie (Il vento soffia dal mare, l’incendio va verso occidente…) e quando quel rosso apocalittico prenderà forma in lingue di fuoco che bruciano il bosco rendendolo radura deserta, mentre gli animali fuggono e un piccolo cinghiale giace a terra carbonizzato, sarà tardi.
L’immagine dei calchi pompeiani dei due amanti avvinti nell’ultimo abbraccio del film di Rossellini (Viaggio in Italia) rimanda ad uno dei Maestri di Petzold.
Quel realismo simbolico, visionario, che mentre scava nelle viscere del male ne trasfigura in forme di bellezza sublime l’essenza mutevole, effimera, lo troviamo anche qui, nella breve storia di tre, poi quattro, ragazzi carichi di vita, ma fermi, come sospesi sul limitare della vita vera, quella che per due di loro non avrà mai inizio, per gli altri chissà, sul finale lo spettatore può immaginare quel che vuole, come in ogni buon film.
Ognuno di loro ha bisogno dell’altro, ma nessuno rappresenta per l’altro un valido supporto. Alle spalle ormai non c’è più nessuno, la famiglia è morta, non esiste neanche nel ricordo.
C’è la casa, il rustico della vacanza, neanche tanto bello, della madre di uno di loro, e questo è tutto quello che serve a dire che c’è una madre da qualche parte.
Passeranno lì qualche giorno.
Felix e Leon hanno un portfolio da preparare (Felix) per l’ingresso all’Accademia d’Arte, e un secondo libro da finire (Leon) in attesa dell’arrivo dell’editore.
Felix non sembra prendere molto sul serio il suo impegno, preferisce bagni al mare e curare l’amicizia col bel bagnino che si porterà a letto ben presto. Felix è bello, vitale e solare, tanto quanto Leon è scontroso, introverso, vittima dei chili di troppo e di un’alta considerazione di sé (Io devo lavorare è il suo mantra) che gli impedisce di vedere i suoi limiti. Che ci sono, e molti. Questo gli rende impossibile accettare le sconfitte, il libro non piace e Nadja, donna autenticamente libera, glielo dice senza mezzi termini.
Avvengono altre cose, nel film, che lasciamo scoprire allo spettatore, tutte comunque nel solco della definizione di modi di essere di tipi umani universali inseriti nell’ordine del tempo.
Il grande falò che brucia il cielo riporterà le cose nel binario giusto, quello della storia del mondo che nei millenni assume forme, cambia modi, inventa Dei e s’identifica con loro.
E poi tutto finisce, il fuoco purifica, trasforma, distrugge parti della Natura che l’uomo ha devastato, rendendola legna da ardere.
Il fuoco fa il suo lavoro, come l’acqua, l’uomo è un incidente sul loro percorso, come il piccolo cinghiale, lui sì, però, innocente. Leon troverà solo a questo punto la storia giusta da raccontare.
Orso d’argento alla Berlinale 2023, Petzold dialoga dei massimi sistemi restando al livello di una quotidianità inquietante solo per chi ne coglie i segnali. Per tutti gli altri la narcosi giornaliera fornisce illusioni quanto basta per dimenticare storia e memoria e vivere nel limbo sospeso del presente.
www.paoladigiuseppe.it
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