Regia di Christian Petzold vedi scheda film
È davvero notevole la quantità di soluzioni che la natura offre alle specie per adattarsi e prosperare nei biomi di rispettiva appartenenza. Tra le tante mi affascina quella adottata da alcune angiosperme dell’emisfero australe e da alcune gimnosperme dell’emisfero boreale che proliferano tramite "serotinia" mediata dal fuoco. In parole semplici queste piante hanno bisogno del calore per riprodursi efficacemente. Le millenarie sequoie californiane, quelle sempreverdi della costa e quelle giganti che crescono sulle alture della Sierra Nevada, sono gli alberi più famosi a trovare nel fuoco un alleato alla riproduzione. Si sono adattate alle particolari condizioni climatiche del loro habitat che favoriscono il propagarsi di incendi nei mesi più caldi e secchi. Quest'ultimi producono danni ingenti tuttavia ripuliscono il sottobosco e arricchiscono il terreno con le ceneri prodotte dalle fiamme. Con l’intenso calore sprigionato dal fuoco il cono della sequoia, normalmente sigillato dalla resina, si apre e rilascia il seme, cosa che non succederebbe in condizioni normali. Grazie al fuoco, dunque, la pigna abbandona il seme al suo destino. Uscito dallo strobilo, costui cade a terra e germoglia per effetto dell’azione purificatrice della fiamma che ha preparato il luogo di coltura rendendolo fertile e privo di antagonisti dannosi. Dalla distruzione rinasce la vita che si autoalimenta nel modo più drammatico ma più efficace possibile, una tesi, questa, che in qualche modo Christian Petzold applica ai personaggi del suo "Roter Himmel".
Leon, il giovane e robusto scrittore protagonista del film, in fondo, ricorda una sequoia. Un albero impassibile ai cambiamenti imposti dall’uomo all’ambiente, un albero che vive duemila anni di solitudine. Leon non si cura di ciò che gli sta attorno, non percepisce alcun mutamento, non intuisce le relazioni che si stanno schiudendo davanti ai propri occhi. Ignora l’evidente significato che una porta di ospedale vorrebbe comunicargli per mantenere sopite sensazioni nemiche della pace interiore che si è imposta più o meno volontariamente.
Leon non è stupido ma è completamente ripiegato su sé stesso. Egoista ed egocentrico si schermisce dal mare burrascoso dei sentimenti che potrebbe sommergere, con un’ondata minacciosa e fastidiosa, la propria spiaggia quieta e deserta.
Il giovane uomo affonda le radici nel terreno sterile nutrito da un romanzetto penoso e da sentimenti ricacciati in fondo allo stomaco. Ma come l’albero stanco e triste della “Favola d’amore” di Herman Hesse, anche Leon finisce con l’aprirsi verso l’esterno e spargere i semi gelosamente custoditi e protetti da una resina indissolubile di calcolata lontananza.
L’incendio che devasta la foresta intorno alla spiaggia è una chiara allusione ai problemi climatici che attanagliano, sempre più spesso, il patrimonio boschivo tedesco, ma è soprattutto metafora di un evento drammatico ed improvviso che, distruggendo il presente, invita, a cogliere nuove impreviste opportunità per il futuro.
Leon è la pianta in cui si trasforma il Pictor di Herman Hesse mentre la studentessa di lettere, Nadja, è la ragazza che avverte il fremito nella corteccia dell’albero vecchio e immobile, un fremito a lungo represso e dimenticato che si propaga dalla chioma alle radici seppur in maniera caotica e maldestra. Leon, però, ha bisogno del fuoco che brucia ogni forma di resistenza e il primordiale istinto alla preservazione prima di aprire gli occhi, arrendersi al fremito e scuotersi da un torpore che l’ha reso insensibile a qualsiasi aflatto umano. Il fuoco brucia lasciando in eredità una nuova ispirazione che la lettura dei due romanzi mette enfaticamente in evidenza mostrando una maturazione personale mutuata dalla drammaticità delle esperienze vissute nei giorni della vacanza marina.
Thomas Schubert è la sequoia che germoglia nel dolore rovente e Paula Beer è il fuoco a cui non può sottrarsi, un fuoco che a prima vista potrebbe incendiare ma che in realtà permette a tante nuove cose di attecchire (un romanzo, un modo diverso di vedere le cose e di approcciarsi alle persone). Entrambi sono perfetti mentre la regia di Petzold svela poco per volta quello che c’è da sapere gettando cenere negli occhi quando serve, avvicinando il pubblico al suo protagonista e allontanandolo subito dopo dalle spiacevoli emozioni che lo annichiliscono. Petzold sa creare attesa (il racconto di Devid è un gioiellino) e sorprende con una pioggia di calda cinigia che improvvisa preannuncia l’arrivo delle fiamme, un evento apocalittico preceduto da tanti piccoli indizi di un destino ineluttabile quanto potenzialmente fecondo.
“Il cielo brucia”, secondo film dedicato agli elementi della natura (il primo è il bellissimo “Undine” ispirato dall’acqua) è un po’ ostico nella prima parte ma una volta entrato nel vivo brucia con passione la materia umana generando da essa i virgulti di un cinema ipnotico, malinconico ed esegeta.
Cineforum Leoniceno - Cinema Eliseo - Lonigo (VI)
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