Regia di John Trengove vedi scheda film
Uber Driver.
Un film abitato per lo più da generosamente stupidi, sinceramente egoisti e impreparati/inadatti alla vita inquadrata nei ranghi della comune società impostata così-come-la-conosciamo (“maschi, femmine, cantanti”, cit., che siano questi attanti) non è per forza un film stupido, egocentrico e involontariamente inconsapevole di sé, degli altri e del mondo, e quest’imperfetta e respingente, ma a suo modo “urgente”, e certamente non perversamente crudele né disumanamente atroce né spietatamente sadica, seconda prova diretta, un lustro dopo “Inxeba” (“the Wound”), che in parte trattava di medesimi argomenti (a cominciare dalle pulsioni omosessuali autoingannevolmente irriconosciute e represse dal protagonista – un imminente padre, prima convivente semi-celibe volontario e poi incel per forza nonché genitore single, che persiste nel suo essere disfunzionalmente monodromo rispetto alle variabili che lo scorrere dell’esistenza gli suggerisce addosso, interpretato da Jesse Eisenberg (da non confondere - momento prosopagnosia - con Michael Cera) in versione Luca Traini della Rust Belt, e che viene descritto dal patriarca della famiglia androide, impersonato da Adrien Brody in versione Gio Evan di supporto in un manodromo syracusano, come “un brutale, tenero gigante, che tira pugni contro il cielo”, sic! – in relazione agli altri da sé che compongono l’umana società), dal sudafricano-newyorkese John Trengove (1978), e da lui come al solito anche scritta, per l’occasione in solitaria, è qui a dimostrarlo.
Accanto ai già citati Jesse Eisenberg (the Village, the Squid and the Whale, Adventureland, the Social Network, To Rome with Love, the Double, Night Moves, Louder Than Bombs, American Ultra, Café Society, Fleishman Is in Trouble, When You Finish Saving the World, A Real Pain), che si scolpisce il fisico del ruolo, e Adrien Brody, completano il cast Odessa Young (“Shirley”), Sallieu Sesay, Ethan Suplee (“My Name Is Earl”, “Santa Clarita Diet”, “the Hunt”), Philip Ettinger (“Compliance”, “First Reformed”, “Brawl in Cell Block 99”) e il cestista rumeno Gheorghe Muresan, al quale è affidato il para-cormacmccarthyano (No Country for Old Men, the Road) finale. Fotografia di Wyatt Garfield (“Mediterranea”, “American Fable”, “Resurrection”), montaggio di Julie Monroe (da Oliver Stone - World Trade Center, W., Wall Street: Money Never Sleeps - a Jeff Nichols - Mud, Midnight Special, Loving, the BikeRiders - passando per Minority Report) e Matthew Swanepoel ("Inxeba") e musiche di Christopher Stracey ("FingerNails"), che ha anche curato l’arrangiamento della splendida cover ad opera del sudafricano-londinese Nakhane - già attore principale in “the Wound” - del già eccellente gospel psichedelico di “Holy Are You” degli Electric Prunes posta sui titoli di coda.
“So che tutti e due abbiamo una vita di merda. Condividere il dolore non è più sufficiente. O forse non lo abbiamo mai fatto davvero. E, amore mio, se andiamo avanti così, forse non mi riconoscerai più, perché non vedrai più neanche il dolore dentro di me.”
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