Regia di Victor Erice vedi scheda film
Partendo dalle ultime immagini che hanno visto come protagonista l’attore Julio Arenas (José Coronado), un programma televisivo cerca di fare luce sulla sua misteriosa scomparsa. A partecipare al programma viene invitato Miguel Garay (Manolo Solo), che oltre ad essere il regista di quel film che non ha mai finito di realizzare, è stato anche il miglior amico di Julio Arenas. Senza eguagliarne la decisione estrema, anche Miguel ha deciso di isolarsi dal mondo, ha smesso di fare cinema e vive in una roulotte in un campeggio in riva al mare. Non ha mai smesso di credere alla possibilità di riabbracciare il suo amico e grazie all’aiuto del montatore di tutti i suoi film (Max Roca) e della figlia di Julio (Ana Torrent), cerca di ricostruire i motivi della sua scelta. E quando un giorno qualcuno sembra aver riconosciuto il famoso attore Julio Arenas nelle vesti di un vecchio signore, lui decide di investire in questa speranza.
“Cerrar los ojos” di Victor Erice si apre con una scena che dura circa quindici minuti. Un totale su una stanza ricca di oggetti da all’ambientazione un’impronta chiaramente teatrale, con i due personaggi presenti nell’inquadratura ripresi rigorosamente in campo medio è l'unità spazio-tempo a dare agli occhi dello spettatore la libertà di andare dove vuole. Poi entra un terzo personaggio che si siede di fronte al padrone di casa. Da qui il cinema irrompe sulla scena prendendosi il ruolo che gli spetta di diritto, con la macchina da presa a dirigere l’attenzione di chi guarda a seconda dell’esigenze emotive del momento. Una serie di campo controcampo tra il padrone di casa e il “terzo” uomo fanno da cornice scenica ad una storia che va lentamente prendendo corpo, ritmata da un flusso di parole che sembrano vestirla di un'esotica carica di mistero. Ad un certo punto, a chiudere il dialogo tra i due, il padrone di casa, prima porge all’uomo una fotografia che ritrae una ragazza in primo piano e poi lo invita ad andare a Shanghai cercando di convincerlo usando queste parole : “Voglio che trovi mia figlia perché è l’unica persona al mondo che può guardarmi in modo diverso, in un modo unico. Questo voglio da lei : il suo sguardo prima di morire. Il suo sguardo, niente di più”. Stacco. Cambio di scena. Si passa all’esterno della grande casa, la macchina da presa è fissa e l’uomo, appena uscito dalla porta d’ingresso, gli si avvicina fino a quando l'immagine si blocca sull’uomo ripreso in piano americano che intanto ha preso la foto dalla giacca rimanendo a guardarla come rapito. Stacco. Nuovo cambio di scena. Siamo a Madrid alla fermata di un autobus. E qui capiamo che quelle che abbiamo visto sono solo alcune delle ultime scene che riprendono l’attore Julio Arenas prima della sua misteriosa scomparsa, scene girate per un film mai terminato dell’amico fraterno Miguel Garay e poi trasmesse da un programma televisivo.
Metacinema quindi, con immagini che penetrano in altre immagini in un caleidoscopio di emozioni che si specchiano nelle forme mutevoli dell’immaginario. Infatti, a seguire lo sviluppo del film, scopriamo che tutta questa architettura conferita alla messinscena, non è tanto il frutto di un mero esercizio di stile, ma lo strumento speculativo attraverso cui Victor Erice ha inteso riflettere sul senso del guardare come opera di edificazione del fare cinema e sul cinema come produttore inesauribile di storie che si rincorrono. Non è un caso che il regista che si ostina a non voler credere alla morte dell’amico attore e che cerca di carpire qualche slancio emotivo dalle ultime immagini che lo hanno ritratto nella lavorazione del suo film, sembra seguire lo stesso desiderio espresso dalla parola del “suo” padrone di casa : quello di ricercare nello sguardo di una persona amata gli ultimi slanci di una vita che si è arenata. Quelle parole è il suo vissuto iniziano ad intrecciarsi quindi, in nome e per conto dell’unica persona che ne può custodire l’effettivo valore sentimentale.
Questo è quanto basta per rendere “Cerrar los ojos” un film estremamente affascinante, capace di usare il potere evocativo delle immagini per smascherare tutta la falsità che possono contenere. La verità sfugge sempre, e quella che riguarda la scomparsa di Julio Arenas diventa ancora più sfuggente perché vive nell’accumulo di immagini ed è alimentata dalla pretesa di poter prescindere dalla loro pura esteriorità. Miguel Garay conosce bene questi meccanismi generatori di immaginari, ed in quanto creatore di storie filmate si sente coinvolto più di quanto non dica il suo affetto ferito : perché insieme a perdere l’amico di una vita, ad abbandonarlo è stato anche l’attore che dava un corpo alla sua immaginazione.
Come Julio Arenas, anche Miguel Garay si è sottratto alle luci dei riflettori abbandonando la scena. Eppure, non si sottrae all'occhio invadente della televisione, che punta bordate di luce su ciò che intende rimanere nascosto facendo della rappresentazione per immagini della scomparsa di un attore “famoso” la prova estrema della sua perpetua esistenza. Ma se il regista si è reso disponibile a ragionare in un programma televisivo sui possibili motivi dell’enigmatica scomparsa dell’attore, non è certo perché non voglia rispettare la sua volontà di rimanere nascosto, ma perché intende svelare la verità sull'effettiva sorte che gliècapitata. La sua ricerca diventa quindi il tentativo di svelare quando c'è di più autentico nell’attore della sua essenza di uomo.
Incontra la figlia di Julio, alcuni amici in comune e le donne che hanno amato insieme, e dai pezzi di storie che ne ricava emerge la memoria di un uomo dal fare libertino, dai sentimenti compromessi e dalle emozioni infiammabili. Un uomo che forse ha scelto di essere dimenticato dato che risultava impossibile poterlo essere come attore.
Come suggerisce il bel finale all'interno di una sala buia, gli occhi chiusi sul mondo sono quelli che sanno scorgere nella meraviglia dei ricordi più belli quanto serve per rigenerare la coscienza.
Al solo quarto film in più di cinquant’anni di carriera e a trentuno anni dall’ultimo lungometraggio (il bellissimo “El sol del membrillo”), Victor Erice si conferma un autore dall’indiscutibile raffinatezza. Il suo è un cinema che preferisce agire di sottrazione, che ama i tempi dilatati, vestirsi di sobrietà, sussurrare gli accadimenti. Un cinema portato al limite delle sue potenzialità contemplative.
Così è anche in “Cerrar los ojos”, un film bello ed affascinante, che al di là delle sue peculiarità speculative, ritrae la storia di una bella amicizia e parla dell’amore per la vita. Quella in grado di regalare sempre belle storie che vale la pena di raccontare. Evviva Victor Erice.
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