Regia di David Yates vedi scheda film
Battere il ferro finché è caldo e meglio un uovo oggi che una gallina domani, sono due proverbi che si addicono assai bene per descrivere l’industria hollywoodiana. In parole povere, un’affidabile comfort zone non si rifiuta mai, vengono preferiti argomenti considerati sicuri anche se altri hanno già battuto la stessa pista, si cerca di non farsi mancare nulla comprimendo all’inverosimile una montagna indefinita di informazioni e, per chiudere, si piazzano un paio di star che facciano da richiamo.
Pain hustlers funziona esattamente così. Un film che non si assume alcun rischio, di cui si può tranquillamente fare a meno, che pare accontentarsi di redigere un compito di facciata senza porsi troppi dubbi/quesiti, con pochissime cose da tenere in memoria, quantunque un’esposizione estremamente diretta e filante, che scucchiaia un evento dietro l’altro, possa soddisfare un pubblico occasionale che non avanzi particolari pretese, se non quella di trascorrere poco meno di due ore alle prese con un repertorio ricco e variegato, di lettura immediata.
Florida, 2011. Liza Drake (Emily Blunt – Oppenheimer, A quiet place) non sa più dove sbattere la testa per tirare a campare insieme a sua figlia adolescente quando incontra sulla sua strada Pete Brenner (Chris Evans – Captain America: The winter soldier, Knives out), un dirigente al servizio di Jack Neel (Andy Garcia – Il Padrino parte III, Gli intoccabili), un dottore che ha ideato il Lonafen, un antidolorifico destinato alla cura dei malati oncologici, che non trova spazio in un mercato dominato da altri marchi.
A sorpresa, Liza convince il Dr. Nathan Lydell (Brian D’Arcy James – Il caso Spotlight, Molly’s game) a utilizzare il farmaco, riuscendo ad aprire una breccia che dà il via a una rapida ascesa, l’azienda si espande, tanto che riuscirà a far entrare nel giro anche sua madre (Catherine O’Hara – Mamma, ho perso l’aereo, Schitt’s Creek), e tutti i principali protagonisti di questo clamoroso successo si confrontano con una ricchezza spropositata.
I nodi sono comunque destinati a venire al pettine, cominciando da metodi di convincimento che oltrepassano i confini della legalità per passare a danni sociali che con il tempo diventano palesi.
Abbandonata per la seconda volta (in precedenza, era successo con il disastroso The legend of Tarzan) la galassia ideata da J. K. Rowling, che da Harry Potter e l’ordine della fenice fino ad Animali fantastici – I segreti di Silente lo ha visto dirigere tutti i film a essa collegati, David Yates si lancia in una vicenda contemporanea sulle leggi del mercato e sui meccanismi deleteri che lo regolano, disegnando una parabola – singola e collettiva – trattata con professionalità ma anche troppo impersonale e strangolata nei tempi di esecuzione per lasciare un segno significativo del suo passaggio.
Dunque, tra approccio (l’outsider che dal nulla sale sul cavallo vincente e conquista il successo), svolgimento (una scalata verticale e senza freni che sventra ogni forma di etica) e attracco (con diverse gradazioni, finisce male per tutti), marcia a testa bassa, con una tabella di marcia che non concede deroghe ad approfondimenti di sorta. In sintesi, compila scolasticamente – e in automatico - una marea di schede e predispone delle gerarchie limpide, per le quali spende tempo giusto sulla sua angolazione prediletta, ossia Liza che usufruisce della duttilità e della vitalità di Emily Blunt (per giunta, il suo personaggio funge da bussola, facendo le debite proporzioni come le era successo in Sicario), mentre tutti gli altri personaggi sono lasciati al loro triste destino, macerati da cambi di velocità ex abrupto che tagliano le gambe (vedasi la metamorfosi comportamentale di Jack Neel) o posizionamenti periferici che non risparmiano neanche una star qual è Chris Evans, che definire sprecato è poco.
Insomma, quasi tutti i passaggi fondamentali avvengono in fretta e furia, in pillole improntate sul mordi & fuggi, le curve – anche quando sono a gomito – finiscono per essere arrotondate, rimanendo in superficie, allo stesso modo i richiami stilistici sono molteplici, con accenni di documentario, un ragguardevole senso del ritmo che – per sommi capi - ricorda il cinema di Adam McKay (ad esempio, La grande scommessa) e una descrizione del lusso sfrenato che guarda a The Wolf of Wall Street, ma tutto rientra in una girandola che appiattisce quasi ogni cosa gli capiti a tiro, limitandone la gittata.
Per ultimo, Pain hustlers paga lo scotto dell’inevitabile confronto con i suoi diretti predecessori in materia di oppioidi/truffe colossali/disperazione procurata/arricchimento smisurato, due serie televisive dal grande seguito, tra l’ottimo risultato conseguito da Dopesick – Dichiarazione di dipendenza (un prodotto solido, coerente e bilanciato che merita di essere visto) e l’arrembante, per quanto parzialmente discutibile alla luce della sua spregiudicatezza compositiva, Painkiller.
In definitiva, Pain hustlers è una specie di bignami dove si volta pagina con troppa facilità, con un instancabile tour de force nel quale il regista assomiglia più che altro a un vigile urbano che dirige il traffico cercando di evitare il verificarsi di incidenti fatali.
Tra faide e collusioni, arrivismo e dipendenze, lavaggi del cervello a suon di generose concessioni e imperi fondati sull’imbroglio, contraddizioni insite nella società liberale e deliri di onnipotenza, assalti alla diligenza e sogni di affermazione che prevaricano/annullano qualsiasi ulteriore considerazione, con un settaggio subitaneo e sbrigativo che, cercando di non farsi mancare nulla, lascia semplicemente l’amaro in bocca, scivolando via in un battito di ciglia.
Appariscente e prevedibile, congestionato e passeggero.
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