Regia di Julien Duvivier vedi scheda film
Il primo capitolo di una delle più popolari e redditizie saghe cinematografiche italiane presenta il paese (mai nominato ma trattasi del borgo reggiano di Brescello) impegnato nei festeggiamenti per la vittoria elettorale del sindaco comunista Peppone, mentre il curato Don Camillo si lamenta col crocifisso della chiesa, che gli risponde a tono. Intanto la vecchia maestra monarchica osserva sprezzante la vittoria progressista e due giovani ipotecano una specie d’amore nonostante appartengano alle due fazioni contrapposte. In questo incipit s’annida tutta la storia: non soltanto l’amoroso odio tra il rosso e il prete, ma anche le marche tipiche dello strapaesano negli abitanti del paesello, la preservazione della memoria che scorre come il placido fiume, la rincorsa alla pacificazione nazionale (esclusi totalmente i fascisti). Don Camillo è, quindi, soprattutto l’affresco comico di un mondo che elabora la tragedia “tenendo botta” con affettuoso e mai dichiarato collettivismo, filtrato attraverso la penna ruspante e conservatrice di Giovannino Guareschi che si fa cantore di una terra contraddittoria e sanguigna. Film caloroso forse perché gestito da un forestiero estraneo alle logiche del sistema italiano nonché abilissimo mestierante (è l’onesto Julien Duvivier, autore di almeno un capolavoro: Prigionieri del sogno), è il capitolo più compatto e coerente al netto della camuffata struttura antologica (all’origine ci sono dei racconti e non un romanzo). Chi ha letto i libri sa che Don Camillo è un personaggio imponente: la scelta di Fernandel risulta però felice grazie alla forte caratterizzazione fisica dell’attore, credibilissimo come fumantino ed istintivo parroco. In un primo momento s’era pensato di affidare la parte all’emiliano Gino Cervi, relegando il bruto e bonario Peppone all’interpretazione dell’esordiente Guareschi. Memorabile tema musicale di Alessandro Cicognini. Grande classico intramontabile.
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