Regia di Julien Duvivier vedi scheda film
Se Don Camillo è un film (ed un libro) piuttosto indicativo per ciò che dice dell'Italia del secondo dopoguerra, è addirittura un'opera importante per quello che non dice, per tutto ciò che involontariamente lascia trasparire di quell'atmosfera e che, inesorabilmente, nei decenni successivi è venuto a solidificarsi, come profezie poi verificatesi con mostruosa puntualità. Ovvero il regime del qualunquismo; l'eterna, furibonda e fasulla lotta cattocomunista (le partigianerie), un orco a due teste, ma che finisce per mangiarsele da solo; l'amicizia non tanto come valore morale, ma come basilare elemento sociale (le raccomandazioni, le tangenti); l'ipocrisia bigotta dei cattolici vessati dalla vicinanza papale e quella politica dei sinistroidi votati ad un culto fantascientifico (Stalin, Mao, qunto di più lontano dalla situazione nostrana). In Don Camillo, pur senza volere, c'è tutto questo e molto altro: una lezione di storia d'Italia sotto forma di commedia. La cosa più bella resta comunque l'invenzione del dialogo fra il prete ed il Gesù crocifisso, che restituisce la divinità ad una dimensione quasi umana o quantomeno prossima all'uomo.
In un paesino emiliano, nell'immediato dopoguerra, viene eletto sindaco il comunista Peppone. La cosa non va giù a Don Camillo, suo eterno amico, ma rivale in politica e 'nemico' religioso. Fra continui bisticci e minacce, i due decidono pure di organizzare una partita di calcio fra le squadre assortite dall'uno e dall'altro: sarà una vera battaglia. Poi, la sfida finale: la corsa all'inaugurazione della nuova casa del popolo per l'uno e del villaggio del fanciullo per l'altro. Ma il vescovo, esasperato, decide che è ora di separare i due e spedisce altrove Don Camillo.
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