Regia di Rebecca Miller vedi scheda film
Alba e tramonto della commedia indie statunitense, nella ricorrente abitudine di romanticizzare le nevrosi dell’homo americanus metropolitano (New York, coi suoi salotti e la sua upper class di cattivo gusto è opprimente sottofondo): She Came To Me è tanto simile a Maggie’s Plan in quanto copia della copia (post-Allen, post-Baumbach, post-tutto), quanto anche un potenziale punto di non ritorno per il format sundance-iano, costretto dal suo “sarcasmo serioso” a tenere due piedi in una scarpa, come dando per scontato che fare commedie “agrodolci” comporti una semplice alternanza di ritmi e di toni (e di formati, si dànno il cambio i 4:3 e i 16:9), e non un’opportuna omogeneizzazione delle parti. Per di più, se sei una commedia. Per di più, se vuoi divertire qualcuno.
La storia del compositore operistico Steven (Peter Dinklage), sposato con la psicologa nevrotica (!) Patricia (Anne Hathaway), in preda al blocco del compositore, è uno specchietto per le allodole per un social commentary sotterraneo: a cambiare il suo destino sarà la “botta e via” con l’umile barcaiola Katrina, Marisa Tomei, stalker patentata e diagnosticata. A corredo del confronto fra classi sociali, la storia dei giovani Tereza (16 anni, figlia della donna delle pulizie di Patricia) e Anton (18 anni, figlio adottivo di Steven), che spinge il padre (anche lui adottivo) di Tereza a denunciare di violenza su minore il giovane, inducendo a sospettare anche di un suo latente razzismo (confermato da Tereza: Anton è mulatto). Questa grossa confusione ideologica, romanticizzata tanto quanto le suddette nevrosi, inquina anche le situazioni dal potenziale più costruttivamente demenziale: quando il film pensa di alleggerire la frittata con le sue esplosioni di presunta ilarità, irrobustisce solo la sua piramide di ridicolo involontario e stucchevole.
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