Regia di Ulrich Seidl vedi scheda film
Nel secondo lungometraggio di finzione del regista austriaco, l'emergere di istinti primordiali sotto la patina di una civiltà occidentale che della bellezza, della fierezza e del progresso di cui risuona l'inno nazionale nella sua beffarda parodia finale sembra non conservare più alcuna traccia.
La canicola agostana di un fine settimana nella periferia viennese fa da sfondo ad una serie di vicende segnate da squallore e violenza domestica, ma anche dai risvolti inaspettati di una tenerezza familiare che cova sotto le ceneri del rancore e della solitudine.
Sotto la patina della cività occidentale
L'ostensione senza veli dello squallore di corpi stesi al sole ai bordi delle villette a schiera sul lungofiume danubiano richiamano, come già osservato da qualcuno, le gallerie di freaks negli scatti di Diane Arbus, ma anche le dissertazioni entomologiche di un cinema che scruta senza empatia la degradazione umana che porta alle sue estreme conseguenze il monadismo e l'alienazione della civiltà occidentale nel cuore della vecchia Europa. Nella stagionale ricorrenza dell'occhio malvagio di un astro brillante che precede appena quello ben più abbacinante della nostra stella, il ciclico ripresentarsi di una follia collettiva nelle sue diverse declinazioni individuali; l'incrociarsi di dinamiche familiari all'insegna dell'incomunicabilità e del brutale linguaggio della violenza; l'emergere infine di istinti primordiali sotto la patina di una civiltà che della bellezza, della fierezza e del progresso di cui risuona l'inno nazionale nella sua beffarda parodia finale sembra non conservare più alcuna traccia. Al netto delle polemiche che ne hanno stigmatizzato la presunta gratuità dei suoi aspetti pornografici, ma anche dagli apprezzamenti pervenuti da più parti della critica festivaliera, la coerenza dello stile di Seidl contamina funzionalmente il suo approccio documentaristico con l'inserimento di attori non professionisti, allo scopo di neutralizzare l'emotività dello spettatore, spesso messo davanti a scene disturbanti, e riprodurre gli aspetti più scabrosi di una realtà umana con una forte valenza simbolica e politica: sotto la strisciante misoginia che emerge nelle relazioni affettive improntate a rituali di sottomissione e di potere ed alle valvole di sfogo di un'attività sessuale promiscua ridotta al rango di mera esibizione ginnica, covano i sintomi di un malessere personale per il quale latitano altri strumenti di elaborazione del lutto (la perdita della moglie per l'anziano ingegnere, la perdita della figlia per la coppia di separati in casa, la perdita dell'affettività per la matura insegnante sottomessa dal compagno); nel campionario di parossismi messi in scena dall'autore, persino la logorroica e psicolabile autostoppista di Maria Hofstätter, vero e proprio surrogato di una sottocultura della mercificazione che, tra un centro commerciale e l'altro, riproduce con insensata pervicacia vieti slogan da tv commerciale e che diventa il capro espiatorio d'elezione per una folla di inferociti adepti di un materialismo consumistico in cerca di vendetta per qualche graffio alla macchina. Un pugno ben assestato allo stomaco dello spettatore, appena alleviato dal velato lirismo delle scene finali: una coppia che si dondola sotto la pioggia piangendo in silenzio la figlia perduta, una coppia di anziani che culla un vecchio cane morente ed una bimba troppo cresciuta che gioca divertita sotto le villette a schiera dei suoi spietati aguzzini. Leone d'argento - Gran premio della giuria al festival di Venezia 2001.
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