Regia di Ulrich Seidl vedi scheda film
L’Austria infelix di “Canicola”, opera prima sgradevole e preziosa, disturbante e non mite, è un universo in cui le “figure” hanno la pesantezza di corpi sfatti, appendici informi, molli, rugose di una mente e di psicologie straziate da qualche sordo dolore o da qualche disfunzione e il ”paesaggio“ è un vuoto riempito da luoghi di transito come le superstrade, le villette a schiera, gli ipermercati, i posteggi, i peep-show, i locali per scambisti. Il cinema che non riesce più a idealizzare il mondo né a descriverne la pienezza e la complessità lo sceglie come set da allestire, come un deserto di cemento con macchie di verde (le miniature di giardini) e d’acqua (le piscine e i laghetti artificiali). Un’impalcatura con un arredo minimo. Una serie di quadri in cui individui-monadi, solitari o aggrovigliati in amplessi statici e crudeli, si fanno guardare dal regista. Ulrich Seidl è un documentarista e il suo sguardo è abituato a sezionare, ad afferrare, a registrare, ad aggredire l’illusione del vero e del verosimile. Scelti dei luoghi di passaggio li ha schiacciati sotto un cielo basso, bianco, afoso, quasi uno schermo perpendicolare al simulacro di sei bozzoli di vita: un anziano ingegnere vedovo e la sua anziana governante, un’autostoppista disturbata e logorroica, una maestra e il suo laido amante, un rappresentante di sistemi d’allarme che teme di perdere i propri clienti, una coppia separata in casa, una ragazza e il suo fidanzato geloso e violento. Alcuni dei personaggi delle sei microstorie che sfilano una accanto all’altra e dentro le inquadrature richiamano nei dialoghi, nelle piccole manie quotidiane (l’ordine anale nella dispensa dell’ingegnere abituato a pesare i prodotti che compra al supermercato o le liste e le classifiche con le quali l’autostoppista travolge gli automobilisti che le offrono un passaggio) l’estetica di un cinema-catalogo, di un cinema-affresco alla Hieronymus Bosch del mondo. Non stupisce, allora, che il regista abbia girato ottanta ore di materiale (come e perché chiudere una scena o dare stop se l’idea di rappresentazione si è logorata?) e abbia costruito il film con un montaggio molto laborioso. Minimalismo né impudico né compiaciuto, su un’umanità tenuta sotto scacco. Ogni mossa, ogni tentativo di conversazione, ogni gesto, ogni pugno e ogni carezza sono inutili: la partita, comunque, è persa. I disperati rapporti di forza (teorizzati da Fassbinder) non riguardano più l’amore, ma il disamore, non più il sesso, ma la carne anonima. La paura non mangia più l’anima, becchetta il corpo.
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