Regia di Matt Ruskin vedi scheda film
A seconda del punto di vista adottato, una vicenda può essere raccontata in un numero indefinito, ampio e variegato di modi diversi. Dunque, la stessa storia ha a disposizione varie opzioni su cui aprire/fabbricare ragionamenti, chiavi di volta che antepongono un fattore saliente piuttosto di un altro, passando dal procurare semplici scostamenti tra due o più modelli fino a rovesciare completamente la frittata, tanto da esperire prodotti sulla carta simili ma che, nella sostanza, risultano essere più divergenti di quanto sia ipotizzabile di primo acchito.
Considerando il materiale da cui attinge, Lo strangolatore di Boston ha poco – in alcuni casi, nulla - da spartire con quei thriller/crime (nella fattispecie, anche true) che vanno per la maggiore, muovendosi sulle tracce del serial killer, tra un crimine e il successivo, efferatezze assortite e stati di agitazione, a cominciare dall’omonimo film di successo diretto da Richard Fleischer nel lontano 1968.
Nella buona e nella cattiva sorte, il film scritto e diretto da Matt Ruskin possiede un’impronta decisa e consapevole, lineare e misurata, contrariamente agli esiti che invece finiscono per essere contrastanti.
Boston, 1962-1965. Nel giro di pochi anni, tredici donne vengono brutalmente uccise all’interno delle loro abitazioni. Mentre la polizia non sa che pesci pigliare, e gli sforzi del detective Conley (Alessandro Nivola – I molti santi del New Jersey, Disobedience) e del commissario McNamara (Bill Camp – The night of, The Looming Tower) non sortiscono alcun effetto positivo, Loretta McLaughlin (Keira Knightley – Espiazione, Tutto può cambiare), una giovane e ruspante giornalista, intuisce come siano stati tutti eseguiti dalla stessa mano.
Alla luce del suo smagliante operato, Jack Maclaine (Chris Cooper – American beauty, Cielo d’ottobre), il direttore del giornale per cui lavora, le permette di continuare nelle sue ricerche che, grazie anche al contributo della sua collega Jean Cole (Carrie Coon - The Leftovers, Ghostbusters: Legacy), produrranno ulteriori risultati, per alcuni versi insospettabili.
Lo strangolatore di Boston è un film che delibera e intraprende un dettagliato modus operandi, scegliendo scientemente quali leve azionare e cosa tenere in secondo piano o addirittura fuori campo.
Prima di tutto, si schiera dalla parte del giornalismo d’inchiesta, seguendo un duo in azione (Tutti gli uomini del Presidente) a partire dalla redazione (Il caso Spotlight), due donne capaci e pugnaci (Erin Brockovich), dotate di un gran fiuto e determinate a far emergere il proprio valore, che non se ne stanno placide e assertive nel posto a loro assegnato, concentrando tutta la forza di volontà di cui dispongono pur di venire a capo di problemi cronici che la società degli uomini non è riuscita a sciogliere.
Dunque, definisce una struttura biografica che classifica parecchi reperti, amministrando un flusso di informazioni che – per dovere di completezza – è troppo nutrito e variegato, farraginoso e intasato, per consentire un racconto incessante e dinamico.
Di fatto, finisce per unire i puntini del dossier in uno schema accademico e sistematico che progredisce a targhe alterne, in continua spola tra casa e lavoro, giornalisti e polizia, appartamenti e prigioni, grane familiari e incarichi da svolgere con la massima dedizione e tempestività, con una velocità di crociera che finisce in sofferenza soprattutto in prossimità del capolinea, quando paga lo scotto per le tante curve eseguite a distanza troppo ravvicinata per coltivarne appieno respiro e impatto.
Una road map cronachistica dai cromatismi spenti, con un impianto formale avveduto e uno sviluppo telefonato, privo di impurità di carattere macroscopico ma anche sprovvisto di colpi di scena o sobbalzi rilevanti, supportato dalle interpretazioni di un cast ricco e assortito, con molte posizioni sacrificate a vantaggio di quella dominante attribuita a Keira Knightley, nuovamente alle prese con un personaggio femminile in anticipo sui tempi (Colette), mentre un maggiore spazio a Carrie Coon – sempre calamitante e propositiva - non avrebbe affatto guastato.
Alla fine, per certi versi, Lo strangolatore di Boston è un film dalla pedalata regolare e un primum movens circostanziato (emancipazione, premio del merito attaccando/intaccando le disuguaglianze), che si autolimita/avvita nel momento in cui fa prevalere il come sul cosa, scegliendo direttamente un vestito non attillato (a vittime e luoghi del delitto sono destinati solo fugaci accenni) e indirettamente una coperta corta, con imboccate promettenti strozzate da un estenuante batti & ribatti, spalmate in una riduzione in pillole, catalogate come chiose su un block notes, penalizzando gli automatismi.
Minuzioso e imballato, sobrio e affaticato.
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