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Anatomia di una caduta

Regia di Justine Triet vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Anatomia di una caduta

di laulilla
10 stelle

Semisconosciuta in Italia, ma con qualche film importante alle spalle, Justine Triet ha firmato con questo bellissimo film, la Palma d’oro di quest’anno. Occasione, si spera, perché la distribuzione nostrana porti nelle sale italiane anche le sue opere precedenti.

 

È un film impegnativo del quale si stenta a individuare il genere, l’oggetto e il significato, senza che per questo perda la la sua forza coinvolgente: il pubblico, infatti, segue attentissimo, per due ore e mezza, la storia che cercherò di presentare, analizzandone i molti inquietanti aspetti, cominciando dall’anomalia della dimora di una coppia – e del loro bambino – che qualche tempo prima viveva a Londra.
Ora i due, per volontà di lui, si sono sistemati in una baita in Auvergne, sopra Grénoble, posto da lupi, reso raggiungibile ai mezzi motorizzati grazie a una strada sterrata, utile ad accompagnare Daniel (Milo Machado Graner), il figlioletto ipovedente, a scuola, due volte la settimana.

Il governo locale aveva concesso questo strappo alla regola sia per la scomodità degli spostamenti, sia per l’affidabilità di quei genitori: scrittore francese lui, Samuel (Samuel Theis), che – in attesa di concludere il romanzo più volte iniziato – si stava adoperando per trasformare la baita in resort traendone un po’ di guadagno; scrittrice affermata lei, Sandra (Sandra Hüller), di origine tedesca. Entrambi di vasta cultura, con buona conoscenza del francese e dell’inglese, la lingua parlata in casa.

 

L’inizio del film è terribile e disturbante, quasi un sinistro presagio della sciagura vicina.
Una musica assordante, dalla mansarda, invade con violenza il sereno lavoro di Sandra, che stava concedendo un’intervista a una giovane giornalista, rendendole impossibile continuare.
Samuel, che stava lavorando alla sistemazione del piano mansardato, aveva mandato nell’etere quei suoni stridenti.
Qualche ora dopo, Daniel, preceduto dal cane Snoop, sua guida e compagno inseparabile, si era imbattuto nel corpo del padre, caduto dalla finestra. I soccorritori, subito chiamati da Sandra, avevano notato una brutta ferita alla tempia, come se una pietra l’avesse colpito provocando l’emorragia inarrestabile di cui la neve conservava più di una traccia…

____

 

È l’antefatto di una vicenda complicata: tutto è incerto, dall’ora del rinvenimento di Samuel, alla sua morte per dissanguamento; dalla ferita alla tempia per un colpo ricevuto – non si sa come, con che cosa e da chi – alla scarsa plausibilità del suicidio; dalle reticenti risposte di Sandra – che ha fasciato un brutto livido sul braccio – ai contraddittori ricordi di Daniel, al comportamento di Snoop che infine, incredibilmente, avrà un ruolo decisivo nello scioglimento dell’enigma, almeno sul piano giudiziario.
L’inchiesta della Gendarmerie, nelle mani dei giudici si sarebbe presto trasformata, infatti, in un processo a Sandra, sospettata di aver ucciso il suo compagno.
Entra ora in scena Vincent (Swann Arlaud), l’avvocato antico amico di Samuel e di Sandra, della quale – così dice – si era innamorato.


La sua difesa, centrale durante il processo, è tutta di rimessa: l’accusatore, ovvero il procuratore generale (Antoine Reinartz), non presenta prove, ma introduce abilmente arbitrarie congetture su fatti che si prestano ad altre interpretazioni, manipolando l’opinione pubblica, con la complicità di talkshow e del chiacchiericcio degli opinion makers, mobilitati per spiegare l’inspiegabile, come i “testimoni” e gli “esperti” che in aula sfoggiano finta cultura scientifica e veri luoghi comuni.

Il difensore, infine, riuscirà a ripulire dalle scorie inutili il tendenzioso ritratto di Sandra, che l’accusatore aveva tentato di offrire alla Corte di giustizia, rivelandosi prive di fondamento le perizie di psichiatri o grafologi desunte dalle opere della donna, che vanno lette come finzioni, come ben dimostra l’unico esperto vero: Arthur Harari che recita se stesso, essendo critico letterario.

 

 

 

 

 

Quello che il film non dice è che Harari è coautore del film, nonché compagno della regista Justine Triet.
“….Ingmar Bergman, da qualche parte, sorride” (Fabio Ferzetti).

La verità, con le sue mille facce, rimane esterna al film, che, a mio avviso, è un’acuta e divertita meditazione sull’ambiguità della vita, sulla inadeguatezza delle nostre individuali percezioni, sulla inutilità di ogni dogmatica certezza.

Due ore e mezza di autentico piacere per la mente, che riflette sulla breve durata dell'amore e della vita, e per gli occhi sedotti dalle immagini gelide che riflettono [sul]lo sgretolarsi di una coppia, nel metaforico paesaggio gelato dell'Auvergne sopra Grénoble.



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