Regia di Luc Besson vedi scheda film
«Ovunque ci sia un infelice, Dio manda un cane».
Inizia con questa frase dello scrittore, storico e politico francese Alphonse de Lamartine il 19mo lungometraggio di Luc Besson, prolifico regista francese in arrivo, nelle sale italiane, a partire da giovedì 12 ottobre e già presentato in concorso all’80ma Mostra del Cinema di Venezia, sua prima volta nella competizione principale di uno dei maggiori festival del mondo.
Sono lontani però i tempi in cui sfidava direttamente Hollywood con il suo cinema virtualmente pop ed estremamente energico, prima ovviamente di esserne definitivamente (e colpevolmente?) inglobato nell’ultimo decennio nel quale il regista torna, stancamente, a ripeterne formule e fascinazioni ormai fuori tempo (o fuori moda), come prigioniero (volontario?) di un mondo surreale e (spesso) favolistico abitato principalmente da letali amazoni, sanguinosi criminali e da un’azione ipercinetica, quasi compulsiva.
Dogman arriva dopo il deludente (e autoreferenziale?) Anna, titolo palindromo dietro al quale si nasconde non tanto l’ambizione (nolaniana?) del regista quanto una sua certa incapacità di evolversi, ed è sicuramente, rispetto a quest’ultimo, un prodotto molto più propedeutico, più evoluto e meglio impostato, maggiormente predisposto a far presa sul pubblico e, a scanso di equivoci, è un buon film, seppur ben lontano dagli eccesivi entusiasmi di una parte della critica, costruito però, ed è questo il suo punto di forza, attorno a un ottimo personaggio e sull’eccellente prova attoriale di chi lo interpreta.
Per quanto possa indurre in confusione l’omonimia con la pellicola di Matteo Garrone (e la sua presenza tra i destinatari dei ringraziamenti finali del regista ipotizza una qualche cordiale “concessione” del titolo da parte del regista italiano), o il fatto che entrambi siano, molto liberamente, ispirate a un reale fatto di cronaca (in questo caso una coppia di genitori che obbligavano il proprio figlio a vivere in una gabbia, avvenuto diversi anni fa in Francia) e nonostante le forti analogie dei due protagonisti principali, le due opere sono racconti molto diversi tra loro ma entrambe un noir di vendetta e solitudine con un tono estremamente tragico, dolente, a volte (o spesso?) un po’ eccessivo nei suoi contorni narrativi, ma comunque rigoroso nello sviluppo del protagonista e della sua autodistruzione programmata.
Produzione internazionale e, in quanto tale, ambientato quindi negli Stati Uniti invece che in Francia, Dogman può essere definito come un’eccentrica variazione canina di un revege movie ma in costante sospensione tra più diversi generi, dal noir de I soliti sospetti alla crime story alla Joker con tinte anche da heist movie, dalla favola gotica al cinema per ragazzi (!) in una continua sospensione, non sempre equilibratissima, tra ironia e dramma, oscillando tra empatia e follia o flirtando spavaldamente con il musical di drag Queen.
Con Dogman, di cui ha curato, oltre che la sceneggiatura, anche la produzione, il più hollywoodiano dei registi francesi torna quindi a un tipo di prodotto che conosce estremamente bene a cui dona momenti di Cinema in grado di toccare diverse corde di una buona parte del pubblico, e di indispettirne invece l’altra parte.
Di sicuro, nel bene o nel male, il film non lascia proprio indifferenti.
E, in fondo, Besson è sempre stato un autore piuttosto istintivo, e con un’immaginazione capace (spesso) di compensare trame molto (eccesivamente?) cartonesche, molto più abile nel colorare d’assurdo la realtà di tutti i giorni e a contaminare tra loro i generi più disperati che non a lavorare di fioretto.
Anche Dogman non è da meno e procede, tra flashback e flashforward, per accumulo ed esagerazioni, ondivago tra l’anima più pop del regista e la ricerca invece di un’autorialità cinematografica di cui però, pur avendo un tono più intimo e molto più riflessivo del solito, ne risulta soltanto una copia un po’ sbiadita, faticando ad andare oltre alla sua stessa, intrigante premessa.
Rimane (quasi) inalterata invece una delle prerogative più conosciute di Luc Besson, seppur in una sua “variante” aggiornata ai tempi che corrono, che è poi quella di descrivere minuziosamente un universo femminile conturbante, energico e vendicativo e nel promuovere una sua versione di femminismo (anche artistico?) consapevole, ragionato e illuminante ma anche intransigente in quanto il protagonista, seppur uomo e, presumibilmente, (anche?) etero, sfodera un femminismo d’avant-garde esplosivo, privo di compromessi, anni avanti rispetto al #MeToo o alle teorie gender liquid tanto di moda oggi ad Hollywood.
Un melò transgender (!) che però si poteva facilmente trasformare in macchietta o in farsa, specie con un’ascendenza nei toni così drammatica e seria, ma se questo non avviene, più che di Besson, è soprattutto merito di Caleb Landry Jones, attore americano già apparso in X-Men - L'inizio, Stonewall, Get Out – Scappa, Tre manifesti a Ebbing, Missouri, I morti non muoiono, The Outpost, in TV in Breaking Bad e nell’ultima stagione di Twin Peaks e vincitore del premio a Cannes per la miglior interpretazione maschile grazie al film Nitram di Justin Kurzel, e alla sua incredibile performance attoriale nel quale riesce a dare spessore, mimesi e verosimiglianza a un personaggio molto prossimo alla caricatura, una maschera grottesca che però cattura, diverte e commuove.
Il resto del cast fa soltanto da contorno ed annovera, tra i suoi nomi, Jonica T. Gibbs, Hatik, Michael Garza, Clemens Schick, Christopher Denham, Grace Palma, Marisa Berenson e Charles Gray.
VOTO: 6,5
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