Regia di Luc Besson vedi scheda film
Venezia 80. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
L'ululato delle sirene squarcia la notte. Una notte come tante in America. Le auto della polizia fermano un furgone. Al volante una nerboruta Marilyn Monroe. Abito sgualcito, trucco slabbrato. La tensione è palpabile, i muscoli si contraggono sotto le uniformi, i grilletti eccitati sono pronti a fare il loro dovere. Dalla pancia del mezzo si odono latrati supplichevoli. La notte è pronta a riversare sulla strada un'immane tragedia.
Luc Besson inizia con una sequenza al cardiopalma in cui tutto sembra possibile: la macabra scoperta di un cadavere, una carneficina di agenti, il pestaggio di una signora. Il prologo è intenso, giocato sull'attesa di un'imminente colpo di scena. Di Marilyn non c'è da fidarsi. Sarà che assomiglia di più al Manson rockettaro che alla dolce e svampita Norma Jeane Baker. E dagli agenti, sempre più agitati di fronte alla sfacciataggine di lei, c'è da aspettarsi di tutto come un proiettile vagante o un manganello che fende la coltre densa delle ultime ore del giorno. L'unico colpo, in verità, lo assesta il regista francese che va smorzando pian piano la tensione. Aperte le porte sul carico, l'attenzione viene dirottata verso una camera dove una donna di colore di nome Evelyn viene buttata giù dal letto da una telefonata. Marilyn ed Evelyn sono destinate a conoscersi.
Il resto del film ci riconduce al prologo iniziale, e poi più in là, molto più in là. Nel mezzo, però, una storia di sguardi, quello intenso, magnetico e strafottente di Douglas, e quello professionale ma anche dimesso e spaurito della sua controparte femminile.
Nel mentre gli occhi si incrociano, gli sguardi si abbassano, i corpi si respingono, le anime si attraggono, al di là di un tavolino che funge da divisore e cerniera. In una cella di pochi metri quadrati Doug scava nelle frustrazioni di Evelyn e lei nella profonda disillusione di lui. L'approccio iniziale è cauto. I primi piani alternati, le lunghe attese e i tentativi della psicologa suggeriscono che non sia lei a comandare il gioco. Riaffiorano suggestioni di celluloide: la bocca del dottor Lecter e lo sguardo impaurito dell'agente Starling costretta a svelare il proprio passato per ottenere un profilo. Il corpo centrale del film lo dirige Douglas che, nonostante le gambe imprigionate in uno scheletro di ferro, è libero di muoversi nella direzione desiderata scegliendo quando tacere e quando parlare.
Una serie di lunghi flashback racconta la vita dolorosa di un ragazzino picchiato dal padre, deriso dal fratello, abbandonato da una madre oltraggiata e terrorizzata.
Rinchiuso nella gabbia dei cani Doug finisce, più tardi, in una girandola di affidamenti. I cani, gli unici amorevoli compagni.
Doug è la metafora intensa di un'America ferita,
barcollante, profondamente segnata dalle diseguaglianze, dalla violenza e dal fanatismo.
Mentre la società lo emargina, in quanto simbolo del proprio fallimento, i cani lo salvano dalla vita stessa e dal rancore.
Il legame tra uomo e animale è profondo al punto che gli amici a quattro zampe replicano le volontà del proprio padrone trasformandosi, ora in vendicatori, ora in custodi della giustizia. Il rappporto con gli amici pelosi rimane imprescindibile nella vita del protagonista perché "Un bambino prende l'affetto che trova". Ogni altro punto di contatto con la società si esaurisce come la passione per il teatro, la cotta per l'insegnante o il lavoro nel canile.
Il montaggio di Julien Rey ha un'importanza cruciale in "DogMan". Frammentando il racconto di Douglas, riduce la tensione, altrimenti insostenibile. La continua violenza, di cui è intrisa l'esperienza giovanile del protagonista, necessita di piccole pause di assimilazione, di respiri lunghi e momenti di calma. Ogni stacco è una gradita interruzione sia per Doug, sia per colei che deve farsi carico del suo travagliato percorso esistenziale, sia per lo spettatore angosciato da percosse e mutilazioni.
Va detto che il carico emotivo viene addolcito, di tanto in tanto, da sequenze buffe, testicoli sotto scacco, cani ammaestrati, indimenticabili performance musicali con parrucca e travestimento. Luc Besson getta qua e là un barlume di luce in un inferno di scelleratezze. Forse per questo, prima della catarsi finale, e per accentuarne la valenza spirituale, il regista torna a rappresentare una violenza feroce ed implacabile. Una sequenza veramente dura e serrata che lascia senza fiato.
La lunga e terapeutica confessione porta in dono ad Evelyn un dobermann paziente a guardia dell'intimità minacciata. Per Douglas, invece, la leggerezza d'animo che si può preservare per pochi fugaci rintocchi del tempo.
Il finale è piuttosto poetico. Douglas si abbandona alla pietà celeste. A mio avviso l''amore incondizionato dei suoi compagni avrebbe compiuto l'identico miracolo divino. Un finale decisamente più macabro ma altrettanto potente avrei immaginato di fronte a quella croce illuminata dalla luce del giorno. Gli occhi sereni di Doug avrebbero dato l'ultimo e terribile comando. Un comando estremo, disturbante ed infine pietoso, raccolto nelle fauci di un cane fedele verso il proprio padrone. Ma è certamente troppo per un film che abbia ambizioni di farsi vedere. Meglio affidarsi ad una giustizia che in terra non c'è.
Besson ha nelle mani un capolavoro ma se lo lascia scappare. Tanto basta però al bravissimo Caleb Landry-Jones per ottenere una parte di sicuro effetto ed un meritato bagno di popolarità.
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