Regia di Luc Besson vedi scheda film
Luc Besson è il regista che mette in crisi il critico cinematografico lasciandolo solo di fronte all’inutilità del cinema di genere. Ma è un’inutilità positiva, attenzione: certi film nascono anche solo per il desiderio di creare delle immagini, dei set, e si dà il caso che Besson volesse crearne alcune e giustificarne l’esistenza dentro un film, collegandole in modo forse sparso per un puro desiderio gratuito, per libidine delle immagini. Il biopic di un supereroe (o un villain?) che riesce a parlare con tutti i cani del mondo. Al confine con la realtà. Non è un film che parla di un trauma che crea un uomo problematico; è un film su un uomo problematico con delle origine traumatiche, e c’è l’idea di scoprirne semplicemente la storia come con la costruzione di una mitologia. Immaginandone un finale e senza azzardare oscuri effetti di causa e effetto, limitati al senso drammatico delle varie scene e meno facilmente a piani più sovrastrutturali e psicologici.
Che poi la storia non sia affatto semplice è un altro discorso: il giovane Douglas viene chiuso da piccolo dal padre in una gabbia per cani, si innamora in un collegio di un’educatrice teatrale e trova la possibilità di uscire dalla sua vita infelice diventando crossdresser in un locale di dragshow. Più va avanti più gli è chiaro di poter usare i cani in tanti modi: aiutare i più sfortunati contro gangster violenti, o rubare. O addirittura uccidere. Il potere dei cani del protagonista, interpretato da un mimetico Caleb Landry Jones, può portare ovunque. E tanto più porta ovunque, tanto più il film va da nessuna parte, ed è un paradossale bene.
Perché nessuna narrazione sovrastrutturale può spiegare DogMan all’infuori dei più diversificati desideri del protagonista, che tra le altre cose manifesta apertamente la sua confusione rispetto al concetto di giustizia. Parla di redistribuzione delle ricchezze ma la psichiatra carceraria lo smentisce in poche battute, costringendolo ad ammettere che si sbaglia. E poca giustizia in veste ufficiale cerca di stargli alle calcagna, e quelle poche volte è sempre terribilmente incapace di controllarlo. Oppure è altrettanto pazza - a partire dall’assicuratore bipolare. In tanta confusione l’unico collante del film rimane il dolore, e la patina di vanitoso deforme giustizialismo rimasta sopra il metamorfico Douglas. Che chiede agli altri che hanno provato dolore di provare un’empatia impossibile. Chiedendolo allo spettatore per estensione, al di là del bene e del male.
È da decenni che Luc Besson trapianta negli Stati Uniti la follia dei Nineties francesi, da Léon a questo DogMan passando per Lucy. Ogni decennio si adatta per sfuggire alle aspettative di ciò che vediamo di solito nel mainstream, e per quanto possa apparire un generatore automatico di provocazione gratuita è un prestigiatore che dissimula con abile mestiere, un regista che lavorerebbe con taglio e fino certosino al set piece più improbabile che esista facendolo credere possibile. E questo è indubbiamente un talento che disorienta. DogMan è una semplice storia imprendibile seppur nella linearità narrativa più ottusa e ostinata. Gran divertimento nonsense. D’altronde nessuno si chiederebbe perché Macaulay Culkin in Home Alone era tanto bravo a creare trappole per casa. Bisognerebbe tornare a sapersi divertire.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta