Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film
Sempre uguale e sempre diverso, il mondo di Ceylan si snoda in ognuno dei suoi film offrendo a chi assiste un’esperienza unica,
Il titolo italiano, Racconto di due stagioni, e la traduzione inglese dell’originale, About dry glasses, A proposito di erbe secche, introducono alle due anime del film.
In definitiva, un film che merita due titoli.
Del racconto c’è il tempo, ma con un progredire così lento da sembrare fermo.
C’è uno spazio, l’estremo est dell’Anatolia al confine tra Siria e Iran, dove il Kurdistan, mai riconosciuto dal governo turco, è territorio di miseria, emarginazione e lotta partigiana da tempo immemorabile.
Coperto di neve per due terzi dell’anno, un lunghissimo inverno senza passaggi intermedi trapassa nell’estate che inaridisce l’erba e secca le foglie.
Ci sono attori, uomini e donne, con la loro vita fissata in un flash, il momento d’eternità immobile trattenuto dalla fotografia.
Samet (Deniz Celiloglu) è un prof di arte, ama la fotografia, altro non traspare. Unica certezza, il suo desiderio di trasferirsi a Istanbul lasciando quella landa desolata e la scuoletta dove ha trascorso gli ultimi quattro anni.
Di lui non sapremo altro, esiste solo il suo presente, e questo desiderio di andar via sembra galleggiare nei suoi pensieri come un palloncino sgonfio che vola raso terra.
Intorno a lui c’è un mondo di uomini, donne, adolescenti, paesani colti dai suoi flash in immobile fissità, il biancore accecante della neve uniforma uomini e cose, sembra che tutto viva in un silenzio siderale per precipitare poi nell’ombra fonda della sera, illuminata da rare luci.
Kenan (Musab Ekici) è il suo compagno di appartamento e collega, Nuray (Merve Dizdar, premio come miglior attrice a Cannes 23) una giovane donna finita nella stessa scuola dopo un incidente che le ha mutilato una gamba durante una manifestazione politica a Istanbul.
Infine c’è il coro rumoroso degli alunni, la ragazzina carina a cui Samet fa qualche innocuo regalo e che forse è innamorata di lui, la muta rabbiosa (ma invisibile) dell’opinione pubblica che tesse odiosi pettegolezzi su Samet e Kenan, il preside e il provveditore, squallidi burocrati tratteggiati con sporche pennellate.
In questo microcosmo ognuno vive il suo tempo con la delirante convinzione tipica del genere umano di essere unico, eterno e irripetibile. Come l’erba che spunta verde, improvvisa, allo sciogliersi del ghiaccio, ma che il sole brucia riducendola ben presto in sterpaglia.
Ceylan e l’Anatolia sono ancora una volta in simbiosi, ma scoprire cosa c’è di luminoso nella notte, cosa c’è di notturno nella luce…* come nello splendido C’era una volta in Anatolia (2010) non è intento di Racconto di due stagioni.
“In meno di 100 anni, Arab, non ci saremo, né tu, né io, né il procuratore o il capo della polizia. Bé, come dice il poeta, passeranno gli anni e di me non resterà alcuna traccia. Oscurità e freddo avvolgeranno la mia anima stanca…” parole dette in C’era una volta in Anatolia, ma potrebbero a maggior ragione essere quelle di Samet.
Vuoto esistenziale, abissi dell’anima, il protendersi verso una meta e accorgersi un attimo dopo che non c’è una meta.
Tutte le cose belle di questo mondo restano invischiate nelle ragnatele che tessiamo e alla fine non arrivano mai a noi … recita la voce fuori campo nel finale, pensieri di Samet in procinto di andar via. Ma andrà? Non lo sapremo.
Nel breve finale (una sola sequenza di pochi minuti sui 198’ di durata complessiva) torna il calore del sole, tutta la gamma cromatica dall’ocra al marrone e i passi calpestano la terra arida senza più affondare nella neve.
Torna il respiro? La vita? L’azione?
No, i tre personaggi camminano insieme ma non c’è nulla che li leghi. Amore, condivisione, amicizia, impegno solidale, lotta politica, pulsione sessuale, tutto si dissolve in una marmorizzazione, Ebru ‘ ya, la parola che appare sullo schermo nero quando ormai Mahmut, protagonista di Uzak (2003), fissa immobile le acque del Bosforo dopo aver fatto piazza pulita di tutto, da Yusuf fino all’ex moglie e all’amante.
La vita sfugge anche se si cerca di fermarla con le parole, l’inazione è la camicia di forza del pazzo illuso di padroneggiare le sue scelte. C’è il magistero di Cechov nel mondo di Ceylan, in tutti i suoi film.
In Racconto di due stagioni lunghi silenzi si alternano a momenti di sfiancante logorrea, sembra che le parole, fino ad allora represse, trovino finalmente la strada per riversarsi in fiumi.
Ma più che di parole il film è fatto di sguardi, la macchina fissa li inquadra a lungo, lo spettatore deve scegliere come interpretarli.
Drammi piccolissimi che si svolgono nella cornice di mondi senza confini, i tre personaggi sono interdipendenti ma ogni volta ricacciati indietro dall’incapacità di gestire i propri sentimenti. Ognuno vive nella mancanza di qualcosa, fra i tre Nuray è il personaggio positivo, portatrice di idealità che l’hanno condotta al disastro (l’amputazione), ma ancora carica di un’umanità dolente che trasmette ai due uomini. Trasmette ma non fa presa, Samet e Kenan restano chiusi in vite che non trovano energia per decollare, come la storia fra Isa e Bahar ne Il piacere e l’amore (2006) dove “…le splendide rovine delle glorie passate, gli stupendi scenari marini e montani curati da una fotografia magnifica, la loro bellezza, mediterranea e solare lei, scabra e intensa lui, sono meraviglie di un mondo a cui sono estranei, l’amore è stato come risucchiato dai loro corpi, è come sparito dalla loro mente, come un sogno che non puoi raccontare, al mattino non resta niente”.
Il cinema di Ceylan “… non ama raccontare, i suoi tempi si misurano sulla durata del tempo reale, se colpo di scena interviene a rimuovere il torpore consueto resta abilmente fuori campo, noi continuiamo a vedere quello che vedremmo nella vita vera, frammenti riflessi in uno specchio. Eppure non parliamo di naturalismo per questo cinema, anzi, è quanto di più costruito ci sia, con quella tecnica di ripresa che punta l’obiettivo a fil di pelle, sudore e pianto colano sullo schermo, gli occhi, una piega delle labbra, il linguaggio silenzioso del corpo, tutto è scelta di un autonomo punto di vista e riconoscimento della dimensione soggettiva, che è propria dell’esperienza personale.
E’performance lirica, che mentre testimonia progetti, pensieri e tensioni dell’ambiente umano di cui è partecipe, afferma la propria individuale percezione e interpretazione del reale.”
Il senso del bello è profondo, l’amore per la fotografia torna ogni volta a fissare momenti del reale, sullo sfondo ci sono la Turchia e le sue guerre, le rivoluzioni, Atatürk che appare in un flash immortalato in un quadro.
Sempre uguale e sempre diverso, il mondo di Ceylan si snoda in ognuno dei suoi film offrendo a chi assiste un’esperienza unica, ma in Racconto di due stagioni si raggiunge un apice in cui si raccolgono tutte le sue visioni.
Non è un caso che manchi uno sfondo sonoro, Mozart, Handel, Schubert e Scarlatti avevano fornito brevi fraseggi che, pure, addolcivano i quadri negli altri film. Ora la musica tace, qualche accordo minimo di piano, la suoneria di un cellulare che usa Aznavour e poi un silenzio ghiacciato che aspetta la canicola per bruciare il timido verde dell’erba.
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*P.Citati, La luce della notte, 1996
I brani virgolettati sono citazioni da mie recensioni
www.paoladigiuseppe.t
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