Regia di Paola Cortellesi vedi scheda film
Un’apoteosi di déjà vu. Questo par essere il film all’inizio. L’appartamento che ricorda da vicino quello di Anna Magnani e famiglia in Bellissima; quel clima para-neorealistico tra Rossellini e De Sica ma senza la forza di costruzione d’ambiente di quelli; Delia – la protagonista – che va in giro a far punture per raggranellare qualche misero quattrino sempre stile Magnani…
Peccato che il confronto, evidentemente ricercato a bella posta, risulti impari: con tutta la simpatia del mondo, ma la Cortellesi non può in nessun modo reggere se affiancata alla grande attrice dei tempi che furono, a livello di recitazione c’è un abisso.
Superati quei primi venti-venticinque minuti di straniamento a causa di questo continuo rifarsi ai fasti di un cinema infinitamente superiore (e che purtroppo non esiste più da mo’), il film si lascia senz’altro guardare, tuttavia continua a mantenere una serie di ingenuità, di inverosimiglianze e una patina come di superficialità, tanto che non si crede per un secondo che la Roma del dopoguerra mostrata abbia alcuna minima attinenza con la realtà (e il perché di ciò probabilmente risiede nella volontà di “universalizzare” la vicenda, ovvero di renderla paradigmatica di una certa condizione della donna, cosa che si sarebbe potuta fare altrettanto bene calando il film nel presente e quindi confrontandosi con un mondo ancora esistente e andando magari per davvero controcorrente mostrando il perpetuarsi di talune dinamiche, alla maniera proprio di quei grandi maestri del cinema italiano che di sicuro non le mandavano a dire [due esempi per tutti, piuttosto ficcanti? Sedotta e abbandonata e Io la conoscevo bene]).
Il B/N, poi, ha un che di artificioso, un tantino piatto, non possiede la profondità e “corposità” di quello dei film cui s’ispira (la fotografia non è esattamente il punto forte del film, ecco) e certuni atteggiamenti appaiono troppo “moderni” (vedi il modo col quale generalmente si rivolge alla madre la figlia).
Su tutto piomba quell’aria di didascalismo, un intento declamatorio ben poco velato. Il messaggio, difatti, viene ribadito ad ogni pie’ sospinto, rischiando – al di là delle intenzioni – di venire a noia (sempre nel primo arco del film, ogni due per tre un uomo tira fuori uno “stai zitta”, “devi imparare a tacere”, “sei ‘na brava figliola, ma c’hai ‘sto difetto che risponni” ecc.).
E il finale – che non sveliamo – porta retrospettivamente a ritenere l’intero film un mero pretesto per giungere lì, quasi un orpello utile giusto a condurre per mano lo spettatore all’ultima decina di minuti che, abbandonando di punto in bianco il piano individuale sin a quel momento predominante, e facendo infine irrompere nella narrazione un che di effettivamente sociale, finisce poi per ricondurre tutto al livello istituzionale. Per carità, affatto disprezzabile, ma la scelta porta a domandarsi come possa ridursi a quello il percorso di consapevolezza della protagonista e il suo sacrosanto bisogno di autodeterminazione e libertà.
Insomma, un finale "un po' così", mentre – di nuovo – per il resto della durata del film la realtà sociale più ampia, che investe anche chiaramente la condizione femminile, rimane sempre alquanto sullo sfondo (un riflesso, probabilmente involontario, dell’ideologia predominante oggi – purtroppo fatta propria finanche da diversi settori del femminismo –, che consta di iper-individualismo e cocciuta negazione di qualsivoglia aspetto di classe, che però difficilmente può essere usata come filtro per vedere il passato, a cominciare da quello delle lotte d’emancipazione).
Una nota marginale, di marca puramente soggettiva stavolta, riguarda la maniera con la quale vengono risolte le scene “delle botte”: chi scrive avrebbe preferito un film che ci andasse un po’ meno coi guanti di velluto, lasciando quasi sempre tutto fuori campo (sia mai che il grande pubblico possa oltremodo urtarsi…) oppure risolvendolo in chiave comico-grottesca, che in un paio di casi pare un poco fuori luogo e non molto riuscita data la serietà degli avvenimenti.
C’è ancora domani è forse un po’ troppo accomodante, non morde, non graffia, manca di quel sano spirito satirico al vetriolo e del caustico “disincanto” di un Germi, di uno Scola, di un Petri. Ad ogni modo, gli attori se la cavano (anche se Mastandrea rischia di scivolare nella macchietta), la regia – al netto degli scompensi di sceneggiatura (il più esasperato dei quali riguarda sicuramente la conclusione della sottotrama col soldato americano) – porta a casa il risultato, senza calcare troppo la mano su virtuosismi e sensazionalismi (ma certe scelte di colonna sonora ce le si sarebbe volentieri risparmiate, specie il rap) e il film in generale strappa la sufficienza, migliora man mano che procede sino ad un finale almeno in parte inaspettato e, al di là di quanto sottolineato, abbastanza riuscito specialmente in quel faccia a faccia moglie-marito.
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