Regia di Paola Cortellesi vedi scheda film
Il film della Cortellesi, saldamente ancorato alla nostra cultura cinematografica, riesce con grazia e potenza evocativa a riportare lo spettatore a nutrire emozioni sincere, ad appassionarsi ai personaggi e a soffrire con loro come se fosse posto egli stesso nella medesima condizione. A riconoscersi e forse a giudicarsi. Un miracolo.
Buongiorno.
Un potente malrovescio mattutino con gli occhi ancora impiastricciati di sonno, rappresenta il rituale risveglio della servetta - mitico momento del neorealismo di Umberto D. di De Sica - di Delia che si appresta ad affrontare la giornata, antipasto delle vessazioni che subirà in silenzio dal laido marito Ivano pur di portare a termine i suoi compiti.
C'è ancora domani è ambientato nella Roma del 1946 alla vigilia del referendum nazionale post bellico che avrebbe cancellato la monarchia in favore della Repubblica ed è un omaggio dichiarato al quella stagione cinematografica collocata tra il tramonto del Neorelismo (1952) e l'inzio della Commedia all'italiana (1958). Il Neorealismo rosa è quindi il riferimento di questo bel film che unisce commedia, dramma sociale e sentimenti con il focus sulla condizione della donna e con un occhio sempre rivolto all'attualità.
Girato in bianco e nero nelle strade di Roma e scritto dalla stessa Cortellesi con Furio Andreotti, la storia vede Delia (Paola Cortellesi) incarnare il ruolo tipico delle donne dell'epoca: casalinga, madre, badante del suocero Sor Ottorino (Giulio Colangeli) e moglie sovente picchiata dal marito Ivano (Valerio Mastandrea) padre padrone di tre figli.
La miseria post occupazione inquina ancora le vite dei sopravvissuti alla guerra che si arrabattano nei più disparati mestieri per raggranellare i pochi soldi necessari alla sopravvivenza. A dispetto delle difficili condizioni di vita, l'allegria e l'ironia tipica del popolo romano sorregge soprattutto Delia nell'affrontare le giornate scandite da lavoretti, riassetti, discussioni con le dirimpettaie nei cortili, le sberle del marito, la gestione dei figli e dell'infermo suocero burbero e profondamente ancorato all'ancestrale maschilismo misogino che ha connotato la vita delle famiglie fino ad allora.
La misoginia è il fulcro della storia, della donna vista soprattutto come orpello fastidioso quando non impegnata nelle faccende di casa, destinata alle botte e al silenzio e se va bene ad un matrimonio con qualche signorotto facoltoso che la prenda a servizio.
Destino che Delia vede accanirsi verso l'ingenua figlia Marcella destinata al belloccio figlio di burini arricchiti ma innervato dello stesso veleno che si trasmette culturalmente di padre in figlio.
La chiave di volta su cui si regge tutto il film è una misteriosa lettera che Delia riceve e che la riempie di speranza. Una possibilità di fuga verso una vita migliore?
Il bianco e nero del film sporca i cortili e gli interni spogli delle case romane, la cadenza romanesca è l'unico idioma possibile, a parte le incomprensioni con l'inglese dei soldati americani ancora di stanza nella capitale, la quotidianità narrata come epica della sopravvivenza in equilibrio tra dramma e commedia. E' un momento non più testimone della condizione sociale dell'attualità nella quale il film è girato ma ipotesi di uno spartiacque vissuto prima della modernità che accoglierà anche le donne, non più mute vittime delle usanze del passato, nelle decisioni della vita politica del paese e quindi per assonanza nella cellula base della società: la famiglia.
Nel Neorealismo non era strettamente importante la realtà ma la verosimiglianza del come se fosse vero. Il film della Cortellesi aggredisce questo concetto con assoluta padronanza dei mezzi, degli attori – lei stessa e Mastandrea, meravigliosi guitti prestati alla commedia dolce-amara, come Aldo Fabrizi e Anna Magnani, già famosi nei teatri romani, furono i mattatori di Roma città aperta - della sceneggiatura che cresce nel ritmo fino a sorprendere con un coup de théâtre finale che spiazza ciò che sembra inevitabile e ricolloca tutta la storia vista fino a quel momento sotto una luce completamente diversa.
Un inno alla fuga dove si parteggia e si soffre con la protagonista, e scoprendo poi che quella fuga dal marito violento e da una famiglia difficile non è un abbandono di responsabilità, tutt'altro, è la fuga da un destino scritto nella misteriosa lettera che Delia riceve. Parole che significano tutto, parole invece del silenzio, il potere della scelta contro la rassegnazione all'invisibilità.
C'è ancora domani ha in sé il germe della speranza e parla della responsabilità del futuro, quindi parla di noi, ora, partendo dal passato. Come eravamo e come siamo diventati, se quella speranza di vita si sia realizzata o meno sta nella partecipazione emotiva e culturale di ogni spettatore, ma non v'è dubbio alcuno che questo film, alla luce della contemporaneità decadente che stiamo vivendo sia il film necessario per non ricadere all'indietro, in quel pantano dal quale a fatica siamo riusciti a riemergere con un poco di dignità.
Una legge del cinema – ma che è applicabile all'arte in genere - afferma che lo spettatore riconosce il proprio mondo solo quando questo viene rappresentato.
Il film della Cortellesi riesce in questo intento con grazia e potenza evocativa, saldamente ancorato alle nostra cultura cinematografica riporta lo spettatore a nutrire emozioni sincere, ad appassionarsi ai personaggi e a soffrire con loro come se fosse posto egli stesso nella medesima condizione.
A riconoscersi e forse a giudicarsi.
Un miracolo.
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