Regia di Paola Cortellesi vedi scheda film
A pensar male si fa presto a dire che l’esordio alla regia di Paola Cortellesi sia un’ipocrita ricostruzione di alcune istanze neorealiste in cui due delle facce più note del cinema italiano contemporaneo si fingono poveri sfortunati di una classe proletaria dopo la Seconda Guerra Mondiale; tanto più che non smettiamo mai di riconoscere entrambi, i loro volti i loro accenti i loro modi di recitare, Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea. Mattatori che non escono mai dal loro volto, e che infatti Cortellesi non dispone subordinati al loro personaggio ma usa per deviare il tono del film, per quegli scarti più ironici che fanno sì che il tema e l’argomento rimangano tema e argomento, fuor di immedesimazione e immersività. Il terzo volto, la leva “semi-nuova” Fanelli, conferma questa tendenza – in un certo senso provinciale – a mettere il volto prima del personaggio, tutti memori delle sue parodie “lundiniane” (A piedi scarzi rende poco credibile qualsiasi sua uscita nel ruolo di una venditrice di ortofrutta). Il flashback coi volti ringiovaniti col digitale di Mastandrea e Cortellesi, poi, parla da solo: più una conferma dello status della loro fama, che non il resoconto della storia dei due protagonisti
A pensar bene invece C’è ancora domani riesce a garantirsi, con una regia curiosamente attenta, un rigore inaspettato che predilige l’azione alla descrizione, il dinamismo di situazioni articolate piuttosto che la staticità di uno stato di cose. Cortellesi non fa mistero che il suo film parli di donne – italiane, di un giovanissimo Secondo Dopoguerra – che frustrano le loro personalità per il bene della famiglia; e che parli anche di uomini violenti e/o stupidi che vivono d’orgoglio machista – il fantasma della Giornata particolare guarda tutto dall’alto, scena su un tetto compresa; eppure la regista declina quest’urgenza tematica con un certo portamento: raccordi di montaggio netti ma precisi, fatti di piccole corrispondenze sceniche non scontate; un utilizzo finalmente funzionale delle scenografie come inquadramento di contesti e gerarchie sociali, scenografia a cui viene garantita una sequela rilevante di panoramiche e totali; un rischio frontale e coraggioso di sottolineare la stilizzazione di alcune dinamiche (che tornano ostinate, come già detto, sulla conoscibilità dell’attore) tramite sotterfugi più imprevedibili come il musical o il thriller ad alta tensione. Ci sono un’energia e un controllo formale che per una produzione italiana di tale risma risultano quantomeno sorprendenti.
Ci sono, d’altro canto, anche la lunghezza, la causalità elementare e nazionalpopolare della scrittura, il sottotesto subliminale (è l’anno dell’apertura del voto alle donne, il 1946) inserito a sorpresa con una traslazione di senso vagamente retorica (chi vedrà il film fino alla fine capirà), e c’è quest’inarrivabilità del neorealismo come cinema popolare e democratico del passato e che qui viene guardato da lontano da un approccio woke che sta un po’ stretto per modalità ed enfasi. Forse ci voleva un film meno comodo e confortevole, e più cinico; di un’intraprendenza politica che smuovesse le “poltrone” del cinema italiano e le coscienze del grande pubblico; non una sfilata pronta ai prossimi David di Donatello.
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