Regia di Stefano Gabrini vedi scheda film
L’orgoglio, si sa, ne ha rovinati più lui del petrolio. Il piccolo Jurij, protagonista di questa ambiziosa quanto velleitaria pellicola (la seconda del romano Stefano Gabrini, dopo “Il gioco delle ombre”), consciamente non sa neppure quanto è alto, figuriamoci se riesce a riconoscere le emozioni. La madre è morta e il padre, pomposamente ribattezzato Prof. K (ma Kafka, ahinoi, è lontano) vorrebbe che suo figlio, dotato di un talento musicale eccezionale, lo stupisse con effetti e affetti speciali. Ma Jurij, dopo averne subite di ogni, al primo appuntamento importante oppone un netto rifiuto. Risultato: il padre lo abbandona. Il ragazzo viene ritrovato in pieno stato autistico, almeno così pensano all’orfanotrofio dove viene accolto. In realtà il piccolo genio è cieco, e forse neanche sente e può parlare. Solo la natura, si convince la psicoterapeuta, potrebbe aiutarlo a uscire dal coma psicologico in cui è immerso. La carne al fuoco è a mille gradi, l’Ungheria s’intravvede, l’Italia fa qua e là capolino, e le giravolte oniriche invadono troppo il campo cinematografico per non tradire le aspirazioni, francamente incontrollate, dell’autore. Ci sarebbe voluto un Tarkovskij o, volando più basso, solo qualche “poetismo” in meno. Quanto allo stile, siamo in zona Tv. Collocazione in cui “Jurij” troverà probabilmente un pubblico dalle esigenze drammaticamente “prime time”. Misteriosi i motivi dello spreco a cui si sono sottoposti Charles Dance e Sarah Miles.
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