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Come pecore in mezzo ai lupi

Regia di Lyda Patitucci vedi scheda film

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La recensione su Come pecore in mezzo ai lupi

di mck
8 stelle

Intercettare la realtà.

 

 

Cresciuta nella factory della Groenlandia Srl (che qui produce con la RAI, mentre la distribuzione è affidata a Fandango e Netflix, e che nello stesso anno ha consegnato alle sale e allo streaming d’un altro flusso un altro film di genere consanguineo - il male alloctono proveniente dall’est europeo, vuoi rumeno, vuoi serbo, che si allea con quello autoctono tutto italiano, vuoi settentrionale, vuoi meridionale - qual è il “Delta” di Michele Vannucci) fondata da Matteo Rovere e Sydney Sibilia per i quali ha curato le regìe delle seconde unità, spesso e volentieri per le scene d’azione, di “Veloce Come il Vento”, “Smetto Quando Voglio: Masterclass & Ad Honorem” e “il Primo Re”, oltre che aver diretto 3 ep. su 7 della eufemisticamente ben poco riuscita “Curon” (a tal proposito all’epoca scrissi di “qualche piccola invenzione di regìa immediatamente sterilizzate e castrate da una contropartita di pateticamente sbagliati, fuori luogo, improvvisati e maldestri rimandi a The Shining & Co.”), Lyda Patitucci, quarantenne ferrarese, debutta con “Come Pecore in Mezzo ai Lupi” nella direzione di un lungometraggio (il "suo" posto di aiuto regista viene preso per l’occasione da Vincenzo Rosa) ponendosi (questa volta non fisicamente, anche se, chissà perché, me la immagino non costantemente appiccicata al video assist, ma ben più orbitante attorno al concreto e vero fulcro delle grandi manovre) dietro alla MdP per mettere in scena una sceneggiatura originale del buon artigiano (la costruzione pscicologica dei personaggi è molto plausibile e realistica, così come le dinamiche delloperazione dinfiltrazione, mentre forse gli sviluppi pratici della stessa si sfilacciano un po verso il troppo inverosimile con la rapina al portavalori che sfugge di mano alle forze dellordine poliziesche, e la giusta presenza del cane quale accettabile metaforone ambulante viene ingigantita e portata allo sfinimento col trito e ritrito seppellimento in zona "pasoliniana") Filippo Gravino (sodale, oltre che della Terra Verde coi succitati “VCiV” e “iPR”, anche del Claudio Cupellini di “una Vita Tranquilla”, “Alaska” e “la Terra dei Figli”) e, a parte qualche momento, all’inizio e alla fine, pochi, un po’ didascalico – per scrittura/recitazione (“Non chiamarmi Stefania, chiamami Vera: mi confondo!”), composizione del quadro (un movimento di macchina un po’ ruffiano/ricattatorio verso la bambina, la brava Carolina Michelangeli, esordiente ne “il Paradiso del Pavone” di Laura Bispuri, regista con cui la protagonista Isabella Ragonese ha nel recente passato collaborato fruttuosamente) e sguardo (l’epilogo droneggiante) – licenzia un lavoro cui raramente si può assistere nell’ambito del cinema italofono (dal “Voci” di Giraldi da Maraini con Bruni Tedeschi al “Petra” di Tognazzi da Giménez-Bartlett con Cortellesi, giusto per fare/porre due esempi/confini temporali e non prettamente qualitativi, passando per, dalla parte opposta, "Galantuomini" di Winspeare con Finocchiaro, mentre i riferimenti base ovviamente sono il cinema d'oltreoceano di Mann/Bigelow e il neo-polar d'oltralpe di Marchal) e che pone le basi, si spera, per un gran bel futuro cinematografico (come già scommisi, al tempo, su Luna Gualano dopo il suo “Go Home - A Casa Loro”, a quanto pare facendo bene dato il trailer di “la Guerra del Tiburtino III”, giusto per proporre un paternalistico esempio ginoide), comunque già “ben” veicolato tra Vanity Fair e Rolling Stone, passando (e cadendo, a 2'45'', sul congiuntivo, ma azzeccando tutto il resto; e poi c'è Giovanna Bizzarri con "Come as You Are" dei Nirvana, eh!) per Marzullo: bra-va.

 


Fatta la tara all’opera mondandola da qualche suddetta incertezza (poche) il film (che mette sin dal prologo, con la giovane albanese involata dalla finestra, le cose bene in chiaro su dove stiamo) è poi egregiamente servito dalla convincente prestazione della sopracitata e sempre (sia lodata, santissime Atena e Afrodite) meravigliosa e “coraggiosa” (per i copioni che sceglie d’interpretare) Isabella Ragonese (“NuovoMondo”, “Tutta la Vita Davanti”, “Viola di Mare”, “Dieci Inverni”, “la Nostra vita”, “il Primo Incarico”, “la Sedia della Felicità”, “il Giovane Favoloso”, “In un Posto Bellissimo”, “Sole Cuore Amore”, “il Re”), affiancata dagli ottimi Andrea Arcangeli, Gennaro Di Colandrea, Clara Ponsot, Tommaso Ragno, Alan Katic, Aleksandar Gavranic, Milos Timotijevic e dalla summenzionata Carolina Michelangeli.

 


Fotografia di Giuseppe Maio (Tulpa, MondoCane, una Femmina, Romulus, Mia), montaggio di Giuseppe Trepiccione (“Zoran, il Mio Nipote Scemo” e “Io Vivo Altrove”, oltre che, anche lui, collaboratore di Cupellini) e musiche electro-vocal di Ginevra Nervi.

 


Come Pecore in Mezzo ai Lupi”, tutto sommato e soprattutto, riesce nell’intento “secondario” d’intercettare la realtà, e fa pure un po’ paura, nel senso socio-politico più profondo, pervasivo e perturbante del termine, e non è poco.

* * * ½/¾     

 


P.S.
Questo è un bell’articolo sullo stato dell’arte di fiamme e fumo digitali al cinema (con particolare riferimento a “No Hard Feelings”): https://www.vulture.com/article/movies-fire-computer-generated-flames.html.

P.P.S.
Nel film cade un cane da un balcone, ma per rimanere ancorato alla cronaca recente preferirei soffermarmi su questo ↓ polpo di peluche.

 


P.S.S.
E questo invece è Maurizio Crippa, aka "uno scemo a campione" (cit.), vice-direttore de “il Foglio”.

 

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