Regia di Babak Jalali vedi scheda film
La scelta di rendere la protagonista del piccolo Fremont una ragazza che scrive i biscotti della fortuna dei ristornati cinesi è forse l’unica strategia non controproducente di tutto un film che di per sé vive di aneddoti, di piccole coincidenze, di ideine proverbiali. Tutto il film, nella sua struttura in forzato 4:3 e in bianco e nero, è un quadretto che, estratto nelle sue somme generali, vedresti bene dentro un biscotto della fortuna: la ragazza che cerca l’amore e per caso trova un uomo; la ragazza immigrata che trova in favole sulla discriminazione assonanze con le discriminazioni della sua vita reale; la ragazza afghana che corregge quello che forse diventerà il suo innamorato per spiegargli che si dice “afghano”, e non “afghanistano”. Coerenza estrema, dunque, con le grandi verità del caso e del destino dei classici bigliettini dei biscotti al burro che tutti conoscono.
Ma è una coerenza, per il resto, controproducente. Fremont è una sequela di scenette indipendenti, trattenute a stento dal filo conduttore dell’inadeguatezza e dell’isolamento, incapaci di dialogare con la posizione pratica che il suo personaggio assume nel mondo: Donya, un’ex traduttrice dell’esercito degli Stati Uniti che, trasferitasi a Fremont (California), trova come unico lavoro quello nella fabbrica dei biscotti della fortuna. Scopriamo dopo tre quarti di film che Donya va a lavorare a San Francisco, perché vuole stare un po’ fra i cinesi e non solo fra i tanti afghani che stanno a Fremont; ci chiediamo subito se questa informazione così basilare per il film sia giunta alla nostra conoscenza così tardi per una radicale scelta formale o perché, semplicemente, il film non ha scenografia alcuna, con il design di una parete vuota senza quadri. Si propende per la seconda opzione quando – questa volta dopo appena pochi minuti – ci si avvede della regia viziata di Babak Jalali, ostinato nel preoccuparsi di più della qualità cromatica del suo bianco e nero che non dell’economia scenica di un’inquadratura. Cosa si vede, in effetti, in Fremont? Una successione canonica di totali, di primi piani, di campi/controcampi, indecisa fra i toni della cringe comedy di marca sundanceiana e il piccolo dramma psicologico. Manco a dire che le due parti, per Jalali, sono ben distanti e inamalgamabili, tanto che dopo Fremont il pur simpatico Frances Ha di Baumbach sembra improvvisamente un lavoro di finissima scrittura e geniale miscellanea di toni.
Un film terribilmente canonico, una commedia che ha il grande pregio di sapere di non poter contare sulla brillantezza ma che per compensare sceglie la via dell’ammiccamento ingenuo e della carineria inoffensiva. Tanto più cerca di complicare le dinamiche della vita di Donya, tanto più Fremont si crogiola nella sua semplicità da confetto costoso e senz’anima.
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