Regia di Axel Danielson, Maximilien Van Aertryck vedi scheda film
Dall'invenzione del dagherrotipo, passando per il nickelodeon, per arrivare all'esplosione di immagini dell'era digitale, numeri impressionanti, miliardi di ore di "girato" ogni giorno. È questo il menù che ci propongono i due sociologi prestati al cinema: una carrellata che - puntellata dalla mai invadente voce di off di Elio Germano - propone una riflessione che richiama, alla lontana, la splendida The Story of Film di Mark Cousins in forma liofilizzata (un'ora e mezza scarsa), calandola in una lettura più strettamente sociologica, una riflessione disincantata su meraviglie e (soprattutto) minacce di un dispositivo (meglio: di più dispositivi) per le immagini. Senza un preciso filo conduttore e con qualche oscillazione temporale di troppo, il film mostra la quintessenza della società dello spettacolo di debordiana memoria (lo stesso Debord ne fece un film, oggi introvabile): dall'uso scientifico dei fratelli Lumiere agli eccessi di chi rischia la vita per un selfie, Instagram, Tik Tok, Onlyfans, fino alla contraffazione della realtà attraverso le immagini, Fantastic Machine è un bombardamento visivo che trova il suo culmine nella sequenza dell'uomo che, recatosi presso alcuni studi televisivi americani per un colloquio di lavoro, viene scambiato per un altro e intervistato in qualità di esperto dei meccanismi del mercato discografico. È l'epitome della deriva che oggi ha preso la cultura del narcisismo, di cui il film scava i meandri oscuri, comici, innovativi, sconcertanti, in una lettura che - filtrata attraverso l'occhio produttivo di un irregolare come Ruben Östlund (quello di Forza maggiore, The Square, Triangle of Sadness), qui in veste di produttore esecutivo - sposta la bilancia del consuntivo assai più sul piatto della menzogna che su quello della realtà.
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