Regia di Luchino Visconti vedi scheda film
"I vecchi diventano strani animali, non lo sapeva? Scontrosi, intolleranti, a volte impauriti dalla solitudine che hanno voluto loro stessi e che tornano a difendere quando è minacciata".
[Burt Lancaster]
La marchesa Bianca Brumonti (Silvana Mangano), ricco e volgare rudere di una borghesia di raggelante grettezza morale, intende affittare un lussuoso appartamento nella aristocratica residenza romana di un professore di scienze americano ormai in pensione (Burt Lancaster): "Sapesse da quanti anni guardo quelle finestre lassù: parcheggio spesso in piazza Campitelli quando vengo per commissioni in città. Sa, trovare posto per la macchina in centro è diventato un tale problema... Anche per questo ho deciso di avere un pied-à-terre in questo quartiere, vivendo a 20 chilometri da Roma". Si presenta dal professore con la figlia Lietta (Claudia Marsani) e il fidanzato di lei (Stefano Patrizi), oltre al suo amante tedesco Konrad (Helmut Berger), al quale intende donare l'appartamento. Di fronte all'irruenza dei nuovi arrivati il professore si dimostra inizialmente esterrefatto e disorientato: "Sono un uomo vecchio, nevrotico, forse anche isterico, che viene disturbato nel vedere estranei, nel sentirne il rumore e che rifugge da ogni sorta di formalità. Ecco perchè non voglio affittare l'appartamento". Sarà proprio Konrad a intaccare queste certezze: dopo un furibondo alterco con Bianca, infatti, piomba in casa del professore per sbollire la rabbia. Ascoltano un disco, un'aria di Mozart (Vorrei spiegarvi, oh Dio!), e il comune amore per la musica rivela immediatamente un punto di contatto tra due uomini così distanti, demolendo le barriere generazionali ed aprendo il professore alla curiosità. Ma Visconti chiarisce subito che è inutile crearsi troppe illusioni: esemplare, in questo senso, la sublime perfidia del dialogo tra i due (con Konrad che fino ad un attimo prima era stato perennemente incollato al telefono) davanti al quadro, contrappuntato in colonna sonora dall'aria di Mozart diffusa dal giradischi:
"Quello è di Arthur Devis, vero?"
"È certamente di un pittore inglese del Settecento"
"Certi amici miei hanno in casa un quadro di Arthur Devis, un paesaggio con figure, l'ho guardato bene"
"Sì, potrebbe essere..."
"E in quello dei miei amici, al centro, non di lato come qui, c'è la stessa costruzione"
"E per di più questo è stato dipinto verso la metà del Settecento..."
"Mi farò dare una fotografia e gliela porto"
"Lei si interessa di pittura?"
"No, non direi, però quello è un quadro che conosco alla perfezione, sta vicino al telefono..."
Di fronte alle miserie esistenziali dei suoi nuovi inquilini il professore prova adesso compassione (così si rivolge a Lietta: "È come se parlassimo due lingue diverse, non c'è possibilità di intendersi tra noi. È tragico, purtroppo: è chiaro che io ho perso i contatti"): Konrad, attraverso la Cultura, con cui riesce a scardinare le barriere etiche del professore entrando in sintonia con la sua stanchezza esistenziale, si trasforma, quindi, nell'Ospite pasoliniano di Teorema, giunto a sconvolgere vite ormai risucchiate, per differenti motivi, nel tunnel della perdizione. La perdizione di Bianca è la volgarità dei nuovi ricchi, la perdizione dei due giovani, Lietta e Stefano, è l'imbarbarimento della società moderna, la perdizione di Konrad è la fiamma della decadenza che incenerisce quella società, la perdizione del professore è l'essere costretto ad assistervi proprio quando pensava di esser riuscito ad isolarsi da tutto questo. Konrad, ferito dopo una misteriosa aggressione, viene soccorso e curato dal professore, che lo alloggia in una stanza nascosta del suo appartamento ("È stata utile a molta gente durante la guerra. Mia madre, che era italiana, restò bloccata qui allo scoppio della guerra: è stata lei a fare questo appartamentino segreto per nascondere perseguitati politici, partigiani, ebrei. So molto poco della sua vita in quella casa, a quell'epoca: morì che la guerra non era finita, io ero in America e tornai in Italia con la Quinta Armata e da allora ho vissuto qui"): ma, per il professore, questa ulteriore occasione di conoscenza avrà conseguenze tragiche. Il vortice di dissoluzioni a cui assiste lascia riaffiorare nella sua mente, sempre più prepotenti, i ricordi del passato (i flashback della madre, Dominique Sanda, e della moglie, Claudia Cardinale), mentre i fantasmi del presente lo accompagnano sul ciglio del baratro in cui precipiteranno. Una notte il professore, attirato dalle note di una canzone (Testarda io, hit di Iva Zanicchi che folgorò Visconti: "...La mia solitudine sei tu, la mia rabbia vera sei sempre tu, ora non mi chiedere perchè se a testa bassa vado via, per ripicca senza te. Io per orgoglio io non ti salverei e dei tuoi miti cosa ne farei? Intanto porto i segni dentro me di un amore che oramai vive vuoto dentro me. La mia solitudine sei tu, l'unico mio appiglio sei ancora tu..."), sorprende i tre giovani in un'orgia: Lietta lo accoglie recitandogli una poesia di Auden ("The moment": Se un'attraente forma vedrai, dalle la caccia e abbracciala, se puoi, sia una ragazza o un ragazzo, senza vergogna, sfrontato, immediato. La vita è breve, così godi d'ogni contatto la tua carne al momento muova. Non c'è vita sessuale nella tomba) e, notandolo visibilmente scosso, prova a fornirgli qualche spiegazione:
"Vede, in fondo è un gioco anche questo, non c'è niente di male, sul serio. È stato giovane anche lei, no? Non era come noi?"
"No, assolutamente no"
"Peccato, ha perduto qualcosa".
Il professore, esaltato dalla vitalità giovanile, si era illuso di aver scoperto nuovi amici: ma la famiglia è un covo di iene che si sbranano e quei brandelli di carne dilaniata dai denti aguzzi dell'ipocrisia borghese, venuti a popolare le sue giornate, lo ricondurranno alla realtà. La realtà, ineluttabile, della morte. Gruppo di famiglia di un interno, penultima regia di un Luchino Visconti già in precarie condizioni di salute, colpito da un ictus durante la lavorazione di Ludwig (che gli paralizzò il braccio e la gamba sinistri e lo costrinse ad abbandonare la trasposizione cinematografica di La montagna incantata di Thomas Mann a cui stava lavorando da tempo), nonostante qualche comprensibile caduta di tono, è un'opera funerea ed implacabile, un solenne e dolente (oltre che autobiografico) teorema etico sul disfacimento sociale di un'epoca in cui "c'è aria di tragedia dovunque ci si volti". Visconti, anzichè, come sua consuetudine, esplorare i mutamenti della storia attraverso le tragedie umane, immerge i figli degeneri della Storia, essi stessi tragedie viventi perchè sia vittime che carnefici, nella paradigmatica linearità drammaturgica del kammerspielfilm, concentrandosi sul "suo" professore, a cui Burt Lancaster dona memorabili e struggenti sfumature, ed inscrivendone l'amara parabola esistenziale nell'illusoria vacuità del suo eremo invalicabile: nelle meravigliose scenografie approntate da Mario Garbuglia, tra oggetti d'arte e quadri di inestimabile valore (l'omaggio di Visconti a Scene di conversazione di Mario Praz), il professore viene travolto, circuito, devastato fino alla lacerazione di ogni certezza. In Gruppo di famiglia in un interno si respira l'aria fetida e malsana della Morte incombente: il tanfo del cadavere in putrefazione (il professore) costringe i nuovi arrivati ad aprire, metaforicamente, le finestre per favorire il ricambio d'aria (esemplare l'ingresso iniziale di Silvana Mangano nell'appartamento), gli impone il restauro, il rinnovamento, la pulizia. Per poi, però, depositarvi nuovi e ancor più mefitici umori distruttivi. Sceneggiatura di Visconti, Suso Cecchi D'Amico ed Enrico Medioli (autore anche del soggetto), fotografia, smagliante, di Pasqualino De Santis, colonna sonora, splendida, di Franco Mannino. E, nonostante i difetti e le sfocature (e le difficoltà realizzative), resta un'opera sorprendente per l'angosciante disperazione che la anima, oltre che il prezioso e dolente testamento spirituale del suo autore.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta