Regia di William Oldroyd vedi scheda film
Se merito innegabile degli autori è quello di riuscire a costruire la tensione intorno ad un'aspettativa della protagonista per poi disattenderla con un colpo di scena notevole, capace di cambiare in un attimo un'orizzonte intero, colpa imperdonabile è quella di non saperlo sostenere poi, gettando tutto alle ortiche con un finale inesistente.
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Boston, anni '60. Parcheggiata con la propria auto di sera in riva al mare, la ventiquattrenne Eileen spia una coppia che in un'altra auto amoreggia, e per placare i bollenti spiriti coglie neve da terra e se le infila nelle mutande. Tornata a casa, schiva il padre che dorme sul divano, poi mangia dolciumi sparsi prima di addormentarsi a sua volta. L'indomani mattina va a lavoro - segretaria presso il carcere minorile di Moorehead - e dopo aver preso vari rimbrotti da una superiore trova il modo di eccitarsi ancora, stavolta fantasticando di venir posseduta da un secondino. Una volta fuori, è costretta ad andare a recuperare il padre, ex poliziotto in pensione, che tanto per cambiare sta girando ubriaco importunando il vicinato brandendo la propria pistola.
I primi minuti di Eileen sono spesi dal regista William Oldroyd per presentare la personalità problematica, timida e solitaria della protagonista, scansata da tutti a lavoro e blindata in un mondo tutto suo fatto di fantasie e frustrazione. Il tono resta lo stesso per un'ora abbondante, con un'ironia sottile ad accompagnare un racconto che pesca in un immaginario grottescamente torbido; un'ora nel corso della quale, progressivamente, a prendere le redini dei sommovimenti emotivi del racconto è un personaggio ancora non introdotto. Perché, mentre nel carcere fa scalpore l'arrivo di un ragazzino accusato di aver accoltellato il padre, una possibile svolta, nella vita della ragazza, sembra giungere quando nel team di lavoro entra una nuova psicologa, la conturbante Rebecca, la quale, differentemente da tutti gli altri colleghi, non solo non la ignora, ma la prende in simpatia, cercando con lei il dialogo e un minimo di contatto empatico, portandola ad iniziare a pensare di aver trovato una nuova amica, se non qualcosa di più importante.
Se, per non guastare la fruizione del film, è bene fermarsi qui e non rivelare altro sulla trama, è vero però che a fare il danno sono gli autori stessi: se merito innegabile del regista William Oldroyd e degli sceneggiatori Luke Goebel e Ottessa Moshfegh (che adatta per il cinema un proprio racconto), è quello di riuscire a costruire la tensione intorno ad un'aspettativa della protagonista per poi disattenderla con un colpo di scena notevole, capace di cambiare in un attimo un orizzonte intero, colpa imperdonabile è quella di non saperlo sostenere poi, gettando tutto alle ortiche con un finale inesistente nel senso letterale del termine: un finale che proprio non c'è. Al punto di far sperare (invano) in una bizzarra scelta di posporre la decina abbondante di minuti mancanti ai titoli di coda. Dopo aver verificato che, effettivamente, dopo titoli di coda non c'è nulla, si va via prendendo atto di esser stati vittima di uno scherzo poco divertente.
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