Regia di Brandon Cronenberg vedi scheda film
Di fronte a un film come Infinity Pool, deve essere ben chiaro qual sia il motore dell’attenzione della spettatore, cosa la attiri, come si giochi con le sue aspettative, dove deve guardare.
Partiamo dall’inizio: James e compagna sono in un’isola esotica durante una vacanza tranquilla (ma leggermente conflittuale) e conoscono una coppia: lei è Mia Goth, fan sfegatata dell’unico sfortunato libro di James risalente a sei anni prima; lui è Thomas Kretschmann, un architetto, uomo d’affari, affabile e convincente. La coppia propone ai due protagonisti di infrangere le regole, di uscire dai confini del villaggio turistico dove si trovano, di esplorare la “terra selvaggia” dove gli stranieri non sono bene accolti e dove vige la legge del taglione. La coppia, puntualmente, si fa convincere. Ed è l’inizio di una cascata interminabile di “regole da infrangere” e di schemi morali da abbattere. Perché il taglione, più che uccidere “un” colpevole, non può fare.
È parzialmente un peccato rivelare oltre di un intreccio che coinvolge doppelgänger, violenza, sesso e consunte metafore sull’Occidente predatorio e colonialista - anche se la crudele legge del taglione è quella dei selvaggi. Ma il peccato è solo parziale perché, come capitava coi film precedenti di Cronenberg jr, le suggestioni formali sono spesso generiche, fumose, e non incorporano una vera e propria personalità formale, vengono dettate dall’idea basilare di trama attorno alla quale ruotare con la forza centripeta dei pretesti. Se non si può fare a meno di ricordare che si parla della famiglia Cronenberg, non si può non citare l’entropia centrifuga di Crimes of the Future, per capire quanto il lavoro del figlio d’arte sia molto più canonico e meno destabilizzante.
Meno Antiviral e più Possessor, Infinity Pool incattivisce lo spettatore mostrando il povero James di Alexander Skarsgard cadere vittima della tentazione e crollarvi dentro come in un baratro, in un meccanismo da “vortice di follia” che può proseguire solo nel cinico modo in cui in effetti, prevedibilmente, prosegue. Eppure non è tanto la prevedibilità (sempre relativa) quella che disperde lo spettatore; la vera patina è invece data dall’assoluta inconsistenza psicologica del protagonista, inetto manichino nelle mani di mostri crudeli. Non è tanto il vittimismo a renderlo distante dallo spettatore; è invece l’assenza di fascino di questo Male dentro cui si fa trascinare, che tiene a distanza dal suo conflitto esistenziale. A parte gli sguardi penetranti dell’horror girl del momento Mia Goth (la cui interpretazione vale l’intero film), non c’è nulla che dovrebbe attrarre noi in questo male. Ne rimaniamo distanti, lo troviamo incomprensibile e per nulla attraente. Sappiamo, insomma, sempre dove guardare, in questo sci-fi filosofico sull’identità in cui infrangere le barriere della moralità equivale letteralmente a “uccidersi”, rinascendo nella nuova forma del borghese indifferente e benestante che in cantina nasconde i cadaveri e le vittime delle proprie violenze indiscriminate. È dal confronto con un altro film di una decina di anni fa (Spring Breakers di Harmony Korine) che sovviene la principale conclusione su Infinity Pool: laddove la violenza dei protagonisti di Korine diventa inscindibile dall’attrazione, dal sesso, dalla gioia e dalla mistica, in Cronenberg jr lo sguardo è sempre e solo schizzinoso e diffidente. Per questo lo spettatore sa sempre dove guardare, nonostante specchi, riflessi, capovolte, dettagli, decentramenti e momenti epilettici e stroboscopici con subliminalità soft-core assortite: nel vittimismo del povero Skarsgard è difficilissimo credere.
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