Regia di Zoë Kravitz vedi scheda film
Quella del 2024 è stata l’estate dei debutti delle figlie (di--) d’arte iniziata con The Watchers di Ishana Shyamalan e proseguita con la sorella Saleka, attrice e autrice della colonna sonora di Trap, pellicole prodotte e diretta (la seconda) da papà Manoj Nelliyattu Shyamalan, e che si chiude con il debutto alla regia di Zoe Kravitz, attrice, cantante e modella figlia del cantante Lenny Kravitz e dell’attrice Lisa Bonet, che con Blink Twice firma (è anche co-sceneggiatrice, insieme a E.T. Feigenbaum, e produttrice) un thriller che nasconde intricate metafore sulla natura del rapporto tra maschio e femmina e su cui stava lavorando già dal lontano 2017.
La pellicola originariamente non doveva chiamarsi Blink Twice ma per motivi legati alla promozione della pellicola, oltre al veto posto dalla MPA – Motion Picture Association che non avrebbe autorizzato la distribuzione del film con il titolo originario, si è preferito infine cambiarlo perché considerato problematico e, sostanzialmente, troppo offensivo da una buona parte del pubblico.
Il titolo, per la cronaca, era il piuttosto esplicativo Pus*y Island.
Un titolo meno interpretabile e decisamente più diretto, esplicito del senso politico del progetto e in quanto tale piuttosto provocatorio e, nonostante il formato da mistery horror (molto) alla A24 (ma è prodotto invece dalla MGM. Serie A, baby!), estremamente indicativo delle sue premesse autoriali.
Zoë Kravitz infatti esordisce alla regia quindi con un thriller decisamente ambizioso, difficilmente classificabile, tra horror sociale e revenge femminile/femminista con molto splatter e parecchio humour nero, chiara emanazione di una personalità inquieta e refrattaria alle regole ma che, nonostante una forte identità scenica, prende da subito la strada più comoda (commerciale?) sacrificandone in parte prospettive e potenzialità sull’altare di una più classica (e di facile successo?) rivendicazione femminista.
Quel «Batti due volte gli occhi se sono in pericolo» sfruttato persino nelle locandine ufficiali contiene già da sola la ragione autoriale della pellicola, uno stato di allerta perenne e la percezione che non tutto è come sembra, tra il detto e il non detto, comportamenti inappropriati e una mancanza di chiarezza tipica delle dinamiche di potere e/o predominio, soprattutto di genere maschile.
Anche la stessa confezione cinematografica è poco catalogabile in una strada a metà tra l’arroganza di affrontare un tema così delicato e complesso, prendendosi anche diverse responsabilità, in modo anche così spudoratamente colorato e pop, e l’incoscienza di dar vita a qualcosa di così (troppo?) derivativo, seppur audace, miscelando diversi registri linguistici e mettendo fin troppo carne al fuoco.
Kravitz ne mescola i piani, pasticcia tra temi etici e solleva tematiche disturbanti mostrando molta spregiudicatezza ma scivolando anche nei classici tranelli dei novizi, esagerando in simbolismi troppo esibiti o calcando la mano per farsi notare, come a pretendere (implorare?) un proprio lasciapassare per il circolo esclusivo degli "autori" cinematografici.
Partendo dagli eventi riguardo all’isola al centro dello scandalo sul miliardario Jeffrey Epstein , e coadiuvata al montaggio da Kathryn J. Schubert, la regista affronta i temi del post-#MeToo attraverso una narrazione speculativa, tra frammenti e sequenze disarmoniche, intermittenti che contribuiscono però alla tensione e a corroborare lo spaesamento della protagonista che diventa quindi quella dello spettatore, per una critica sociale che ricorda molto del cinema americano contemporaneo, in special modo quello di Jordan Peele (soprattutto Get Out- Scappa!), ma anche The Menu di Mark Mylod, o il cinema di Emerald Fennel, Don't Worry Darling di Olivia Wilde o Revenge di Coralie Fargeat (specie per l’uso delle immagini e dei colori), e collegandosi ad alcune derive della società contemporanea come il ritenere che sia sufficiente chiedere scusa per venire assolti dall’opinione pubblica o che basta qualche settimana di terapia per considerarsi, socialmente (giornalisticamente?), guariti, o ancora di fare leva sul ritardo delle denunce per ritenerle per questo inattendibili o semplicemente faziose.
Ed è proprio la memoria al centro della storia, quell’oblio che può sembrare anche una benedizione ma che in realtà si trasforma in una prigione per chi sceglie, o gli viene imposto, di dimenticare.
Rifacendosi ad atmosfere grottesche con declinazioni sociologiche anche di un certo cinema europeo, seppur rimaneggiate e/o reinterpretate per adattarle a un cinema di genere molto americano, Blink Twice partendo dall’ipertestualità che incolla su smartphone migliaia di persone nel mondo costruisce una non sempre centratissima seduta terapeutica sui mali del nostro presente, un’immersione su quegli schemi di dominio machiavellicamente architettati a nostra insaputa (o nel nostro totale menefreghismo?) venendo sedotti e rapiti dall’apparente perfezione di questi costrutti di pura illusione.
Ma quel che rende interessante un debutto decisamente promettente non sono tanto le, comunque, importanti questioni sociali che riesce a sollevare quanto piuttosto per come riesce a metterle in scena attraverso una lente visivamente intrigante, a volte anche onirica e, spesso, piuttosto inquietante.
Oltre alla bravissima Naomi Ackie (Lady Macbeth, The End of the F***ing World, Whitney - Una voce diventata leggenda, The Score) nel ruolo della protagonista e a Channing Tatum (Step Up, 21 Jump Street, Magic Mike, The Lost City), compagno nella vita reale dell’attrice/regista di Blink Twice, il film si avvale anche di un buonissimo cast di supporto, tra cui Adria Arjona, Alia Shawkat, Christian Slater, Haley Joel Osment, Simon Rex, Levon Roan Thurman-Hawke (figlio di Una Turman e Ethan Hawke) e con Kyle McLachlan e una rediviva Geena Davis.
VOTO: 6,5
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