Regia di Ben Affleck vedi scheda film
Non ammette distrazioni il personaggio di Matt Damon in Air, quel Sonny Vaccaro esperto di basket che mira a fare di Michael Jordan il fulcro della strategia espansiva della Nike, allora (gli anni 80) non proprio al massimo della gloria. Anzi, è ultima dietro a marchi ben più rinomati come Adidas e Converse con i quali il futuro asso della pallacanestro potrebbe firmare. E sarà appunto l’ostinazione di Vaccaro e la costituzione di una squadra di complici tesi al fine di ingaggiare l’atleta, a creare un prodotto tale da richiamare l’attenzione del grande giocatore e, insieme, a trasformare l’intera industria delle calzature sportive.
La regia di Affleck sposa con modestia il punto di vista del suo protagonista, circondandolo di caratteristi estremamente efficaci (per lo più provenienti dall’ambito televisivo) tra cui lo stesso regista nella parte del dubbioso e filosofeggiante CEO di Nike. Con la macchina da presa ad altezza d’uomo e una direzione quasi invisibile, Affleck accompagna i suoi personaggi con un’apparente assenza di stile hawksiana, con primi piani stretti e scene d’insieme in piano americano, come fosse un western borghese. Guidato da dialoghi incalzanti alla Sorkin, ma circoscritti in ambienti chiusi e con una fissità dei corpi che priva il film della dinamica “walking & talking” tipica dello sceneggiatore di West Wing, Affleck costruisce lo spirito del tempo con immagini di repertorio e con una colonna sonora zeppa di riferimenti pop e cinematografici (la musica di Beverly Hills Cop, ad esempio), sfruttando un montaggio rapido per creare movimenti e tensione in modo quasi wellesiano al fine di dinamicizzare una storia statica e quasi interiore.
Perché tutto il film risiede nel rovello di Damon, nei tentativi di conquistare la famiglia Jordan per convincerla a firmare un contratto con una marca invisa al campione, alla ricerca di collaborazione tra i colleghi inizialmente scettici, nei dubbi sul creare un precedente economico (la percentuale concessa agli atleti sulle vendite), e alterna scenette brevi e vivaci quanto reiterate (col commesso del supermercato, per esempio) per creare un più complesso punto di vista e un certa atmosfera da sit-com.
In questa costruzione di un’icona in divenire, attraverso la sineddoche delle Air Jordan, lo stesso cestista compare non ringiovanito, ma ripreso dal basso da inquadrature ad altezza delle spalle di una persona di altezza media, privato del volto giovane del tempo, con le fattezza dell’attore che lo interpreta abilmente oscurate da intralci o oggetti in campo, da posizioni del corpo: è una precisa scelta di regia che rifiuta la visione totale del biopic classico per soffermarsi sulla costruzione di un dettaglio, che così diventa eloquente raffigurazione d’insieme. La raffigurazione non si impersona perché era in attesa di definizione, il campione di conferma, il mercato di stabilizzazione e il successo di maturazione: poi tutto si è incarnato e il simbolo ha preso vita, come confermano le vecchie immagini col vero volto di Jordan.
Non ci sono sbavature o distrazioni nella pellicola, sebbene una certa caratterizzazione caricaturale degli abiti (con un profondo senso di autoironico ridicolo da parte del regista), degli atteggiamenti (e molto delle capigliature) contribuisca al tono generalmente leggero di un film altrimenti saldamente costruito sulle perfette interpretazioni dei protagonisti. Air non si perde né si interrompe per dare informazioni complementari superflue, accennando alla solitudine di tutti con poche inquadrature silenziose, raccontando una disciplina del lavoro che si avvicina alla passione e alla fede ma senza alcuna ampollosità, prendendo anzi in giro, con una piccola citazione tarantiniana (il monologo su Like a Virgin) nel definire l’essenza proletaria di una canzone (Born in the USA) e di un autore come Bruce Springsteen, all’epica all’apice di una gloria male interpretata nella sua foga musicale come retorica reaganiana, a dispetto del suo stesso testo. Perché, in fondo, e in modo perfettamente speculare alla produzione del Boss., Affleck e Damon fanno un cinema modesto sin da Will Hunting, storie di successo insperato quanto improbabile, radicalmente dalla parte dei salariati sottopagati pur rimanendo all’interno dell’industria e delle sue dinamiche. Non è quindi un caso che il film, nella sua volontà di racconto partecipato e dimesso, sia frutto di un'inedita compartecipazione ai guadagni da parte di tutti i partecipanti da parte della casa di produzione costruita dai due protagonisti, Artists Equity, una sorta di United Artists aggiornata con il controllo del progetto in ogni sua fase da parte di tutti i partecipanti.
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