Regia di Ben Affleck vedi scheda film
È una storia tipicamente americana, quella del grande salto. Un salto che non è soltanto gesto atletico - il volteggio aereo compiuto da Michael Jordan, il più grande cestista di tutti i tempi - ma anche metaforico: quello di un'azienda - la Nike - che, da outsider, divenne leader nel mercato mondiale della scarpa da pallacanestro grazie alla caparbia determinazione di un suo talent scout Sonny Vaccaro (DSamon), all'inventiva del suo designer Peter Moore e alla capacità di azzardo del suo C.E.O. Travis Knight (Affleck), nomen omen di un cavaliere dell'avventura finanziaria. Siamo nei primi anni Ottanta, Michael Jordan è ancora un ragazzino diciottenne che vive con mamma e papà. Ma è l'astro nascente della NBA e a contenderselo, per fargli indossare il proprio marchio, ci sono giganti come Adidas e Converse. La storia del film è quella di come, grazie anche al fiuto di una madre (Davis) che finisce col diventare la protagonista involontaria del film, quell'affare milionario se lo aggiudicò proprio la Nike.
Ben Affleck, meno espressivo di una cernia imbalsamata, dirige col suo consueto stile tra il convulso e il tachilalico, giocandosi la carta di un cast di primo livello (lui escluso, ovviamente). Tutto già masticato, visto e stravisto: l'avveramento del sogno a stelle e strisce che premia l'iniziativa individuale, l'ostinazione e il duro lavoro che ti portano a fare le nottate in ufficio, in linea con quella immarcescibile tendenza al calvinismo tipicamente americana. Un'ode al capitalismo sotto la quale, gratta gratta, contano soltanto i soldi. Con le didascalie sui titoli di coda che dicono assai più del resto di una pellicola nella quale il basket è del tutto marginale.
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