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Air - La storia del grande salto

Regia di Ben Affleck vedi scheda film

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La recensione su Air - La storia del grande salto

di diomede917
8 stelle

CIAK MI GIRANO LE CRITICHE DI DIOMEDE917: AIR – LA STORIA DEL GRANDE SALTO.

È un dato di fatto, Ben Affleck è troppo più bravo come regista che come attore.

E ha due specialità che gli vengono da Dio.

La prima è raccontare Boston e i suoi abitanti più infimi e nascosti e la seconda è raccontare l’America degli anni ’80 attraverso storie vere che nessuno fosse a conoscenza.

Air, come fu con lo strapremiato agli Oscar Argo, fa parte della seconda categoria e se tanto mi da tanto sento profumo di statuetta con almeno un anno di anticipo.

Il Film si apre mettendo in evidenza l’anno del Signore 1984.

Non c’è il Grande Fratello di George Orwell ma come Presidente abbiamo Ronald Reagan, il film si apre con Money for Nothing dei Dire Straits accompagnati da Sting, l’America canta Born in The Usa di Bruce Springsteen ma solo dopo ne capisce il significato del testo e la Colonna Sonora del film è costellata da Beverly Hill Cop, Pino Donaggio in versione Brian De Palma e video di Cindy Lauper in lontananza.

Nell’economia americana c’era lo strapotere delle Converse di Magic Johnson e Larry Bird, tallonate dalle Adidas le scarpe più cool della terra.

In parallelo le Nike devono trovare un modo per non far sparire dalla produzione l’intero settore Basket visto come ultima scelta anche dal marketing aziendale.

Cosa fa a questo punto Ben Affleck, prende una sceneggiatura che a Hollywood non se la filava nessuno su un argomento che sinceramente non interessa a nessuno e ne fa un film “Corposo” che esalta il Sogno americano e il nuovo capitalismo.

E come lo fa? Nel modo più rischioso possibile. Raccontare la nascita delle Air Jordan, tenendo fuori fuoco e fuori set Micheal Jordan (il più forte di tutti) e soprattutto tenendo fuori il Basket da tutte le due ore di film.

E il vero paradosso è che realizza un film avvincente basato su dialoghi veloci e taglienti come una partita dei Chicago Bulls e tutto imperniato sul gioco di squadra che si crea tra il regista (qui anche in veste CEO Nike simil Dargen D’Amico) e il suo cast tutto in parte.

La rischiosa scelta di lasciare Micheal Jordan un’entità astratta, un fantasma invisibile e puntare tutto sul ruolo determinante della madre Deloris interpretata da una Viola Davis già da Oscar 2024 (unica vera scelta imposta dal campione NBA) si è rivelata stravincente ai fini dello sviluppo del racconto. Avrebbe distratto troppo lo spettatore. Ed effettivamente, in quel frangente Micheal Jordan era solamente uno dei migliori prospetti giovanili che aveva già scelto Adidas e quindi non ancora quel mito che avrebbe legato a quelle scarpe la sua leggenda. E quindi è giusto che non si veda, lo dobbiamo percepire, lo dobbiamo sentire.

E quindi il protagonista assoluto diventa quello che non ti aspetti, il nome scritto su una porta d’ufficio.

Quel nome è quello di Sonny Vaccaro, chiamato apposta perché le sue intuizioni prevedono il futuro. Purtroppo, non è uno di quei manager in giacca e cravatta con il fisico allenato. È bassino, è tarchiatello, è soprattutto molto pigro e di conseguenza non credibile nel ruolo di venditore di prodotti sportivi (diventa difficile credere che dietro a quell’uomo si nasconda Jason Bourne). Ma è un uomo a cui non piace sentirsi dire no.

Air racconta del suo fiuto, della scelta di puntare tutto il budget su un unico talento piuttosto che su tre giocatori che dopo una stagione si sarebbero già dimenticati, della sua capacità di persuasione di far vedere il futuro (bellissima la scena in cui si inventa di sana pianta chi sarà Micheal Jordan grazie alle scarpe costruite intorno a lui, le famose Air Jordan. Discorso reso credibile sulla base di immagini di repertorio che hanno reso Leggenda il più grande giocatore di basket mai esistito) a lui ma soprattutto alla mamma di Micheal Jordan.

Air ricorda molto il cinema di Adam McKay, quello visto nella Grande Scommessa e Vice ma soprattutto nella serie dedicata ai L.A. Lakers, Winning Time.

Ben Affleck regista non gigioneggia con i suoi attori e non nasconde troppe critiche socio politiche dietro la storia di una scarpa che diventa LA SCARPA perché indossata da LUI.

Il punto di forza è tutto nel gioco di sguardi e botte e risposte tra Matt Damon e Viola Davis, nella paura di fallire di Jason Bateman che ha solo in quella scarpa l’unico modo di farsi volere bene dalla figlia, negli scazzi fuori dalle righe del manager di Micheal Jordan che nonostante tutto è e rimarrà l’uomo più solo del mondo.

Ben Affleck si indentifica talmente tanto nel ruolo del Guru della Nike che fa suo il messaggio che ci sta dietro alla frase Just do it! E infatti sono riusciti a fare veramente un gran bel film di una volta da vedere al cinema con lo schermo bello grande.

Voto 8

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