Regia di George Miller vedi scheda film
Insignificante. Fastidioso, per le inutili esagerazioni. Ma ottimo per scenografie, costumi e trucco, esaltati da fotografie e montaggio; e solo per quello. Una enorme operazione commerciale, di evasione.
Un videogioco che dura due ore e mezza, e ciononostante non cade mai di ritmo. Ma resta un prodotto da maschi dei primi anni delle scuole medie. Se può essere apprezzato non solo dai preadolescenti, forse si tratta di un pubblico dal livello culturale un po’ basso: che vuole solo effetti speciali, violenza, esibizione del corpo; e, qui in particolare, tanti motori. Infatti auto, moto, camion e generi merceologici affini spadroneggiano.
Il problema è che non c’è nessun senso: niente di bello, cioè di significativo, per un essere umano. Ma attenzione: uno potrebbe allora ritenere che il messaggio è pessimistico, apocalittico, tipico della distopia della fine dell’umanità… e quindi il regista deve mostrare tale disumanità incombente… Ma proprio non è così. Passa solo l’ostentazione dei corpi, dell’orrore, inteso come violenza, che fa leva su alcune delle tendenze più morbose di noi esseri umani, quelle in base a cui ci piace – paradossalmente, in senso apotropaico – vedere inscenato ciò che più temiamo.
L’esaltazione per la forza bruta, come l’attrazione verso ciò che spaventa, sono l’unico senso del film: che dunque è un’operazione, umanamente e culturalmente, poverissima. Al netto di tutti i tanti pregi che ci sono, e che già abbiamo citato: in più, ecco uno splendido deserto, coi suoi bruni.
Ma, per indicare un possibile esito terribile dell’umanità, non necessitava questa operazione distopica: bastava gran parte della storia, la quale ovviamente è molto più autorevole. Quella preistorica, primitiva, barbarica, come anche quella della guerra, terribile e ingiustificabile, mossa dai popoli sedicenti civilizzati – guerre coloniali e non, anche molto recenti.
Il film è una ininterrotta carnevalata in salsa tragica: Africa e Asia – specie stilemi indiani, dalla barba incolta, e mediorientali – ma in generale si cita ogni tribalismo esotico; mescolando il tutto all’immaginario dei pirati. In modo anche grottesco: palloni da calcio assieme ai teschi dei bisonti; tinture banche sulla pelle e teschi, simili ai vudù di Haiti, assieme al capitalista col panciotto…
Questi aspetti sono conditi assieme ad una tecnologia che rimanda in realtà più al passato, diroccato e superato, che non al futuro (almeno questo spunto intelligente bisogna riconoscerlo: saremmo in un futuro più povero, dove il progresso si è interrotto): lo si vede da tanti indizi, come tanti mezzi di locomozione (inclusa la ridicola quadriga con le moto dell’antagonista Dementus).
Ridondano le improbabilità cui solo i bambini possono credere: come la protagonista che, stremata, si mozza un braccio e in poche ore da sola se ne fabbrica uno bionico, per poi vivere benissimo. Tecnologia financo molesta, per quanto sia inserita a casaccio per fare colpo: persino ai cani non manca la loro doverosa protesi, in più di un caso.
Colpisce il deserto, certo, ma soprattutto quello umano e culturale: non voluto, anche se paga per la superficialità di una messinscena che attira molti più spettatori, proprio per i suoi richiami volgarotti. Che coniuga il road movie più ignorante con la forza più teppistica e ferina.
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