Regia di Chris McKay vedi scheda film
Gli anni Ottanta sono stati un periodo particolarmente folle e creativo per l’horror grazie alla fioritura di tantissime pellicole low budget prive di eccessive restrizioni e a una creatività che, senza trovare troppe scuse o giustificazioni in trame troppo elaborate e ad ardite metafore culturali, sociali o esistenziali, potevano eccedere (e degenerare) in qualsiasi cosa, anche in quelle più stupide (o sgradevoli).
Negli anni Ottanta una pellicola come Renfild sarebbe stata la regola, non l’eccezione.
Ho conosciuto il personaggio di Renfield (prima ancora che nel romanzo di Bram Stoker) nel Dracula del 1931 diretto da Tod Browning, dove era un agente immobiliare che, in trasferta da Londra in Trasilvania per lavoro, impazzisce in seguito alla frequentazione con il principe vampiro (a differenza del romanzo dove era già pazzo di suo e rinchiuso in manicomio molto prima dell’arrivo di Dracula in Inghilterra ma stabilendo col Conte un ambiguo legame di dipendenza e sottomissione).
Partendo da un’idea del fumettista Robert Kirkman (The Walking Dead), che ha riletto la classica relazione tra Dracula e il suo schiavo attraverso il filtro, molto più attuale e moderno, della co-dipendenza tossica tra vittima e aguzzino costruendoci attorno una commedia horror d’azione condita da abbondanti scene gore e note d’horror di stampo più classico, Reinfield è prodotto dalla sua Skybound Entertainment, già dietro al successo di Invincible (sempre di Kirkman), affidandone la sceneggiatura a Ryan Ridley (Invincible, Rick & Morty) e scegliendo inizialmente per la regia Dexter Fletcher (Eddie the Eagle, Rocketman, Ghosted) per poi cambiare, a causa di problematiche legate alla pandemia, e a puntare quindi su Chris McKay (LEGO Batman, The Tomorrow War)
Senza farsi troppi problemi nell’eccedere in arti mozzati, corpi smembrati e esplosioni di carne e sangue e a un discreto repertorio splatter a condire le (tante) scene d’azione coreografate dallo stuntman Chris Brewster, nel complesso però non particolate ispirate e, in generale, con una messa in scena un po' sottotono, Renfield fatica anche ad amalgamare i vari codici che lo compongono, tra horror ridanciano (!?) e action metro-criminale e, al netto di uno spiccato citazionismo cinefilo (che non sempre va a buon fine), edificato molto di più attorno alla commedia e al gore (ma sempre talmente eccessivo da anestetizzare qualsiasi aspetto traumatico) da risultando decisamente più esilarante che spaventoso.
Renfield infatti è volutamente un (enorme) guilty pleasure che funziona principalmente per la performance del cast e, soprattutto, per Nicholas Cage che indossa il mantello del Conte e i suoi denti aguzzi con aderenza e consapevolezza, richiamando soprattutto quello del 1931 di Bela Lugosi (citato e omaggiato nelle immagini in bianco e nero che richiamano direttamente la pellicola di Browning) ma anche quello di Christopher Lee nell'era d'oro della Hammer, come anche la performance di (molti) altri vampiri cinematografici.
Divertente poi la volontà di renderlo una specie di “sequel” non convenzionale del classico Universal del ‘31, motivo che ha reso estremamente felice la scelta di ingaggiare proprio Cage per il ruolo del Conte, sia per l’evidente physique-du-role ma anche per una sfera interpretativa che tenta di muoversi tra mimetismo ed esasperazione scenica estremamente funzionale in quanto perfettamente declinato a un contesto filmico così sopra le righe.
Protagonista della storia è comunque il personaggio titolare interpretato da Nicholas Hoult, che sembra ricalcare in parte le proprietà sia fisiche che caricaturali già da lui sperimentate in Warm Bodies (2013) per una catarsi che lo porterà, con decenni di ritardo, a prendere coscienza della propria dipendenza e a cercare finalmente di superarla, tra libri motivazionali e improbabili gruppi di sostegno, riproponendo nel rapporto con Dracula un’eco di quello tra Willie Loomis e un altro vampiro, il Barnabas Collins della saga televisiva Dark Shadoes (di cui ovviamente gli americani hanno maggiore familiarità rispetto al pubblico italiano o europeo).
E in effetti la creatura stokeriana, e il vampiro in generale, si rivela essere la perfetta metafora del narcisista patologico, che sfrutta le sue abilità (in questo caso anche soprannaturali) per succhiare la linfa vitale agli altri a soddisfazione di sé stesso e della sua insaziabile fame esattamente come uno normale sfrutta le emozioni e le debolezze degli altri per essere ammirato e servito da chi cade vittima del suo raggiro.
Dopo tutto il primo vampiro “romantico” della storia, che ha poi profondamente influenzato tutte le opere successive, anche lo stesso Dracula di Stoker, è stato il Lord Ruthven de Il vampiro di John William Polidori, costruito a immagine e somiglianza di Lord Byron di cui Polidori fu a lungo segretario personale e a cui lo legava una morbosa amicizia a cui si contrapponeva un odio non meno esasperato (e che lo portarono a definirlo «un corruttore dell’innocenza e un predatore insaziabile»), sentimenti di odio tra l’altro ricambiati dallo stesso Byron, in un perfetto esempio "storico" di rapporto di dipendenza affettiva disfunzionale.
Ed è quindi sorprendente che proprio una pellicola come Reinfild riesca a modo suo a chiudere il cerchio ricollegandosi direttamente (!?) all’origine (nascosta?) del mito letterario moderno del vampiro, seppur in modo (probabilmente) del tutto involontario.
---
E se non fosse poi così involontario?
VOTO: 5,5
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta