Regia di Jean-Baptiste Durand vedi scheda film
Il rapporto tra due amici d’infanzia, Dog e Mirales, viene messo in crisi dall'arrivo in paese di una ragazza, Elsa, con la quale Dog inizia una relazione.
L’opera prima del regista Jean-Baptiste Durand ci offre uno spaccato della vita di provincia, con i suoi riti sempre uguali (il ritrovo la sera nella piazzetta del paese, la ripetizione giornaliera negli scambi di battute tra concittadini), le sua noia fatta di tempi morti e di un sommesso desiderio di fuga. Il rapporto tra Dog e Mirales è saturo di questa situazione, basato su una dipendenza reciproca tipica della giovinezza, un rapporto “fraterno” anche nelle sue storture. Mirales ha un cane, Malabar, che lo obbedisce ciecamente e cerca di impostare un rapporto simile anche con Dog (nomen omen), gestito in maniera dominante, tanto con l'affetto quanto con gli sberleffi, anche pesanti.
E qui bisogna aprire una parentesi (non breve, scusate) sull’attore che interpreta Mirales, perché è uno degli aspetti più interessanti del film: Raphael Quenard è qui al suo esordio nel lungometraggio ma mostra un’energia ondivaga, perennemente in bilico tra il consapevole e lo sfasato che ha un che di minaccioso e che ben si adatta al personaggio, richiamando certe figure tipiche dell’adolescenza, al contempo piene di sé e insicure e per questo imprevedibili, anche a se stesse.
Subito dopo Quenard ha girato Yannick di quel talentaccio folle di Quentin Dupieux, nel quale il suo personaggio prende in ostaggio per tutto il film attori e pubblico di un intero teatro (e anche noi spettatori con loro), di nuovo offrendo un’interpretazione ambivalente, dinamitarda e anarchica, tra il comico e l'inquietante. Se non vi ho ancora reso l’idea, vi dico di più: durante la realizzazione di Chien de la casse, ha girato un cortometraggio (coadiuvato alla regia da Hugo David) intitolato L’acteur su se stesso che interpreta per la prima volta il ruolo da protagonista e su quanto lui sia strano e incomprensibile anche per il resto della troupe: inserisce discorsi di ammirazione nei confronti di Al Pacino (con il quale cerca di condividere lo stesso stile recitativo basato su un perenne stato di tensione nervosa) e conclude il tutto in maniera surreale con un anziano giapponese che lo dirige all’interno di una sorta di teatro No demenziale. In sostanza talento grezzo o bluff autoalimentante? Per il momento resta di sicuro una delle scoperte più curiose dell’anno passato, insignito anche del premio come rivelazione maschile ai Cèsars (l’altro premio andato a questo film è stato quello di miglior opera prima).
Ritornando al film, pur con qualche piccola stonatura (le citazioni colte fatte dai personagg sembrano un po’ stonare con il contesto e lo scontro con i bulli locali risulta un po’ pretestuoso), lo sviluppo riesce quasi sempre a mantenersi su un equilibrio funzionale all’atmosfera di fondo, quella appunto della vita di paese, aiutato anche dall’ambientazione in un paesino dell’Hérault, dipartimento del sud della Francia, che con le sue viuezze e piazzette strette accentua il senso di limitatezza che può provare chi non riesce ad adattarsi alla vita di provincia.
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