Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Di Stanley Kubrick, l’idea straziante e sublime dell’eternità, del tempo ciclico e immobile, della macchina che impara a conoscere e a sentire la paura e l’angoscia e, in un futuro non precisato, ad amare; l’idea che gli “shining” siano intuizioni, memorie anticipate, cortocircuito tra un mondo sensibile e un mondo metafisico, tra la Natura e la Scienza, il caso e il destino rivelati solo attraverso le immagini (del cinema). Di Steven Spielberg, l’angoscia di un bambino, David o E.T., che vuole tornare casa, la nostalgia di un non vissuto, la forza degli affetti e dei sentimenti, il terrore dell’intolleranza (“orga” che annientano i “mecca”) in campi-luna park e in fiere della carne dove la storia si ripete, la fascinazione per il cinema come moderna, ultima nella scala evolutiva dell’intrattenimento, macchina delle favole, la speranza di incontri ravvicinati finalmente possibili quando gli esseri umani avranno ceduto il loro posto (nel mondo) agli esseri meccanici, ad altri organismi venuti da una galassia-isola che non c’è, alle intelligenze artificiali assemblate in laboratorio da malinconici padri-scienziati di creature imperfette. “A.I.” diretto da Spielberg, da un progetto incompiuto di Kubrick, è un film molto bello, dalla doppia personalità, diviso in tre atti distinti e non omogenei, aperti e chiusi da un ideale sipario di buio e di luci, con magnifiche invenzioni visive (Manhattan con le sue torri sommerse dalle acque, la città dei balocchi, dell’eros e della conoscenza, il laboratorio della falsa vita), con due compagni di viaggio, Teddy, il sapiente orsetto di stoffa che conosce il valore del tempo, e Gigolò Joe (interpretato da un Jude Law, usato dalla regia come impronta esemplare di un replicante buono) che ha le movenze di un irrigidito Gene Kelly. Pinocchio, Robin Hood, la fantascienza di Isaac Asimov, gli altri film di Spielberg, “2001: Odissea nello spazio” partecipano all’avventura incantata e commovente (con qualche difetto, qua e là, per generosità narrativa) del fanciullo meccanico che voleva diventare umano, dormire ed essere amato. Il bambino (interpretato da un meraviglioso Haley Joel Osment), con i suoi sensi, fatti di chilometri di fibre, di schede e di silicio, “vede” gli esseri umani e gli “alieni” e riporta in vita la madre morta nelle poche ore che restano di un giorno e di un’epoca. Come in una fiaba, in un sogno realizzato, in una visione, David abita una casa che non esiste più, ma è calda, luminosa, protettiva e avvolgente: un’astronave proiettata o perduta oltre i confini di un universo dove si disegnano e si raccontano le avventure di esseri fragili che ignorano perché siano nati. E ai quali non basteranno duemila anni (luce) per diventare grandi.
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