Regia di Michael Haneke vedi scheda film
Che cosa ci può rappresentare Erika Kohut? Naturalmente possiamo considerarla da un punto di vista piscologico, psicoanalitico, esistenziale, ma anche come un simbolo dell’antinomia della coscienza borghese.
Da un punto di vista psicologico, questa insegnante di pianoforte, che vive sotto la protezione a tratti invasiva di una madre che però tutto sommato non è poi così diversa da tante altre, sembra essere sessualmente repressa. Non può sintetizzare il suo rigore professionale e artistico con la sessualità, la quale, pertanto, è una sessualità perversa, voyeurista, al limite sado-masochista.
In senso psicoanalitico si può dire che il rigore della sua coscienza solitaria, priva di affetti e amicizie, e tutta dedita all’insegnamento della musica, a livello sessuale si manifesta con pulsioni che prediligono la distanza, il contatto oculare, una sessualità meccanica, fatta di sequenze prestabilite, dove l’abbraccio non è possibile ma deve essere sostituto dalla sofferenza subita. Il piacere che ne deriva è il rilassamento del rigore nel suo rovesciamento perverso senza che però il rigore cessi di essere tale. In sostanza, Erika è perversa nel rigore ma è anche rigorosa nella perversione, due facce della stessa medaglia, perche conscio e incoscio comunicano con linguaggi che possono tradursi l'uno nell'altro così come esige il sintomo.
Allargando il discorso si potrebbe dire che Erika è anche un simbolo, esprime cioè quell’antinomia della coscienza borghese che è sempre presente nelle opere di Haneke. Il piacere deve essere come una scarica violenta, che non contamini il dovere, e che in qualche modo, per un gioco dialettico, è assimilabile al dovere medesimo. In questo senso Erika è la coscienza dilacerata, che si pone come ideale un amore impossibile, perché di fatto è irretita nella sua rigorosità rispettabile ma al tempo stesso non può arginare le istanze di eros se non invischiandole con quelle di thanatos. Diventa così il simbolo di un’umanità che non può essere felice, che vive la felicità come una colpa, una felicità che può essere vissuta se non attraverso la punizione. Questa coscienza universalizza tutto, perché tutto deve essere puro e incontaminato, mentre il lerciume, così viene percepito tutto ciò che è corporeo, deve essere privato della sua vitalità, scomposto, rotto, ferito, sacrificato, e solo a questa condizione acquisisce una sua legittimità. Non è per invidia che l’insegnante Erika ferisce le mano della promettente pianista sua allieva, come non è per cinismo che maltratta psicologicamente i suoi allievi; semplicemente non li ritiene in grado di incarnare la musica, perché l’universalità della musica non può incarnarsi in alcuna singolarità corporea, neanche in Erika.
Questa universalità della cultura, in cui tutta l’umanità si riconosce, vista nelle sue coerenti conseguenze, non è altro che il grande terrore, che sovrasta il singolo e lo rende degno di essere maledetto, calpestato, denigrato. Erika allora rappresenta la stessa tragedia della cultura borghese, ed è per questo che non possiamo esprimerne un giudizio morale, per il semplice fatto che per quel che rappresenta è la condizione della stessa morale, intesa in senso cristiano-borghese luterano. Entrare nel mondo di Erika significa entrare nel nostro mondo, e Walter non è altro che l’estraneo, che non riesce a comprendere la tragedia della cultura in cui siamo sommersi. E’ proprio Walter l’inquietante, la bestia bionda, che con la sua tetra normalità copre tutte le contraddizioni in una claustrofobica voglia di vivere l’amore così come esso si dà, nella sua immediatezza, apparentemente innocente.
Ecco perchè La pianista è un'opera estremamente difficile: Erika rappresenta una cutlura, la nostra, in conflitto con se stessa, nello smarrimento più totale, che diventa fulcro esistenziale di tutta un'umanità che affonda; chiudere gli occhi di fronte a questo naufragio, pensare che il tutto si risolva con una carriera artistica, con una vita distratta e baldanzosa, di onesti sentimenti, a questo punto, diventa semplicemente un oltraggio all'esistenza medesima, che in Erika trova la sua rappresentazione più estrema.
Ciò non vuole dire che Erika rappresenti una sorta di autenticità dell'esistenza quale modello idilliaco, anzi. Si vuole semplicemente dire che la cultura borghese da una parte aspira all'universalità e non può esprimerla se non reprimendo la singolarità, e dall'altra la singolarità non può esprimere tale universalità se non rovinando se stessa; Erika non solo è l'espressione di questa antinomia ma ne è anche, in qualche modo, una rivolta esistenziale, onesta, che non butta via quest'antinomia con un colpo di spugna, ma la vive profondamente dentro di sè, cercando di liberarsene pur rimanendone vittima.
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