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Alba tragica

Regia di Marcel Carné vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Alba tragica

di (spopola) 1726792
8 stelle

“Una tragedia della purezza e della solitudine” (come definì il film A. Bazin). Indubbiamente uno dei vertici di quel realismo poetico che trae origine e linfa dalla densa scrittura decadente e poderosa (adesso anche un po’ demodé per il barocchismo elegiaco che la contraddistingue), di Jacques Prevert (autore dei dialoghi a partire da una sceneggiatura coordinata insieme a Jacques Viot) inarrivato cantore di quel sentimento estremo di innamoramento assoluto che sfocia nel possesso e nella passione, così “disperato e imprevedibile” da diventare una “dannazione”, che rappresenta anche in questo caso, il cardine della vicenda e che Carné riempie da par suo di immagini indimenticabili e fortemente empatiche, con l’indispensabile contributo del contrastato bilanciamento dei “bianchi” e dei “neri” e di tutte le infinite sfumature intermedie, della fotografia creativa di A. Trauner. Forse potremmo adesso considerare il risultato complessivo di questa apprezzabile operazione (così aderente al “clima” e ai “temi” che caratterizzavano in Francia le “correnti” artistiche e di pensiero di quel periodo) quello che più ha risentito del tempo trascorso e che, fra tutto ciò che ha realizzato insieme questo duo formidabile, è invecchiato peggio, ma questa considerazione non annulla né rinnega l’evidenza inalterata (anche se l’insieme è incontestabilmente meno pregnante ed “omogeneo” di quell’amalgama perfetto rappresentato da “Le amamts du Paradis” che rimane il loro capolavoro assoluto) che l’intensità abbacinante della storia risulta, anche nella contemporaneità più corriva del presente, di così forte spessore drammatico, da lasciare intatta l’emozione e il dolore per questo appassionato viaggio introspettivo verso la morte, fra amarezze, rimpianti e recriminazioni. Gli ingredienti ci sono tutti, e risultano ben amalgamati fra loro nel procedere parossistico verso la inevitabile conclusione che non presenta vie d’uscita e che si definisce nella esposizione spietata dell’ultima notte di una ossessione anche amorosa, che sublima le ore terminali della vita di quell’operaio sfiduciato e smarrito, dannato suo malgrado, braccato dalla polizia nella soffitta della sua abitazione, che sa di essere davvero arrivato alla resa dei conti e che, in attesa della fine, rivive gli ultimi crudeli (ma anche struggenti) momenti che hanno preceduto il “misfatto” che lo ha portato alla “perdizione” (l’uccisione di un suo rivale in amore) divisi e contrapposti fra la passione “innocente” per una giovane fioraia e la torbida relazione dall’incerto e non adamantino passato. Difficile far convivere con credibile aderenza simbolismo e realismo: Carné ci riesce perfettamente, ponderando alla perfezione i vari elementi e facendoli coesistere, con una invidiabile omogeneità che non presenta “crepe” né scissioni. Lo sguardo è attento e analitico, privilegia (ma non sopravanza) gli elementi simbologicamente significativi che nel disegno complessivo hanno una fondamentale importanza (i dettagli di un materiale multiforme e variegato che vengono plasticamente esibiti per “suggerire” ed emozionare, concentrando appunto l’ottica della cinepresa su piccoli particolari all’apparenza marginali, ma che diventano presenze ossessivamente ripetitive ad annunciare la inevitabile tragica conclusione, come le cartoline che ravvivano l’eco sbiadito del passato e di ciò che si è lasciato, i fiori, persino le sigarette o un orsacchiotto, e soprattutto la rivoltella e l’implacabilità della sveglia che segna il passare delle ore). Questo, grazie a una calzante visione “concretamente” e crudamente reale degli accadimenti che rende percettivi anche i pensieri e i turbamenti del protagonista. Nonostante la sua struttura e i suoi aspetti “intimistici” e privati, il film ha comunque ambizioni più elevate, assumendo i toni e le dimensioni di un “dramma” dai risvolti psicologici fortemente marcati che stigmatizzano un percorso che intende avere anche una specifica e inoppugnabile valenza sociale (a partire dalle origini proletariamente operaie “dell’eroe”, non disgiunte da quella “visione negativa del destino” che tratteggia l’ineluttabilità incontrovertibile e catartica dell’imponderabilità della predestinazione (una delle caratteristiche peculiari del periodo, che condensa le principali tematiche prioritarie che si identificano e riassumono nel pessimismo esistenziale di “quella” specifica “corrente di pensiero” che ha così fortemente inciso sull’immaginario collettivo prima e dopo la seconda guerra mondiale. Fin dalle prime sequenze, si avverte infatti netta l’impressione che quell’operaio riottoso pieno di rabbia e di rammarichi, è irrimediabilmente “schiacciato” - distrutto, oserei dire - proprio dalla irreparabilità di ciò che gli ha riservato il suo destino, che nulla può contro di esso e che non potrà per questo, sfuggire a una cruenta conclusione della sua esistenza). Uscito sugli schermi qualche settimana prima dello scoppio della guerra, non ebbe vita facile: fu prontamente ritirato dopo pochissimi mesi di programmazione, perché considerato “demoralizzante” per la solita miopia vessatoria di un sistema censorio già a quei tempi inaccettabile e prevaricante. La “persecuzione” subita contribuì però a miticizzarlo, così da consentirgli, proprio grazie a quest’aura di film osteggiato (e per questo “maledetto”) di raggiungere una incontrastata notorietà internazione e una unanime positività di giudizio da parte della critica. Si possono proprio in questo senso ravvisare nella anomala struttura della sua forma a flashback, le fortissime influenze che esercitò su una grossa fetta del cinema di “genere noir” che venne dopo, soprattutto americano (non a caso, il soggetto fu prontamente “ripreso e rifatto” a Hollywood nel 1947 - ovviamente ribaltando incongruamente il pessimismo della conclusione con un posticcio happy end - per la regia di Anatol Litvak e l’interpretazione di Henry Fonda, con il titolo de “La disperata notte). Jean Gabin offre in questa “Alba tragica” (“Le jour se leve” in originale) in assoluto una delle sue migliori interpretazioni, sofferta e “caparbia”, rabbiosa e rassegnata, coadiuvato da una ancora splendente Arletty (epurata, per lo meno da noi - e ancora per biechi motivi di censura – di una scena di nudo sotto la doccia), dalla giovanissima, inedita Jaqueline Laurent, da Jules Berry a da un irriconoscibile, quasi esordiente Bernard Blier in un piccolo ruolo di contorno, oggettivamente di non facile identificazione.

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